Il Quirinale e la sfida del Campari
Mario Draghi pensa ma non dice. A volte tronca, come è successo a più riprese in conferenza stampa: ogni domanda sul tema Quirinale è “offensiva”, per lui e per il presidente in carica. Altre volte sopisce, come è successo l’altroieri a Parigi: commentando la “rivelazione” sfuggita al barista della First Lady (“Draghi veniva spesso a fare l’aperitivo, gli piace lo spritz Aperol, e la moglie mi ha detto che sicuramente suo marito farà il presidente della Repubblica”) smentisce l’ingrediente dell’aperitivo, ma non il trasloco al Colle. Fonti a lui vicine sostengono che almeno fino all’approvazione della legge di bilancio il premier non scioglierà la riserva sul suo prossimo futuro. Se va così, vuol dire che fino a Natale il Palazzo vacilla e il Paese balla. Il silenzio draghiano alimenta il rumore bianco dei partiti, che non trovano il bandolo di una matassa sempre più ingarbugliata. Senza una regia accorta e condivisa l’Italia rischia davvero quel che il presidente uscente vuole scongiurare con i suoi messaggi di fiducia: un gioco al massacro, nel quale rischiamo di bruciare in un colpo solo sia Mattarella che Draghi. Ai tempi di Ciampi la regia ci fu: Veltroni, Fini e Casini compirono l’impresa. E ci fu anche ai tempi di Napolitano e dello stesso Mattarella, alla cui elezione concorse anche l’astuto Renzi (non ancora trasfigurato nel Jep Gambardella del teatrino politico, capace non di organizzare le sue ma di far fallire le feste degli altri).
Stavolta la regia non c’è. O per lo meno non c’è ancora. C’è invece un centrodestra sconclusionato, che usa e abusa di Berlusconi come arma di distruzione di massa. C’è un Movimento Cinque Stelle a (dis)trazione contiana, che un giorno tratta Draghi come Re Travicello, promuovendolo al Colle per rimuoverlo da Palazzo Chigi, e il giorno dopo lo esalta come Buzz Lightyear, proiettandolo al governo “verso l’infinito e oltre”. E c’è la solita accozzaglia di Anime Perse e sempre intruppate al centro, pronte a tutto pur di salvare scranno e pensione. In questa impasse imbarazzante, tocca al Pd muovere un passo, rinfrancato dai sondaggi che lo fotografano primo partito quasi suo malgrado. Tocca a Enrico Letta battere un colpo, senza aspettare un’implausibile “svolta” a gennaio. Tenere a bada le correnti del partito, silenti ma tutt’altro che assenti, come dimostra la giunta di Roberto Gualtieri a Roma. Sgombrare il presepe stantio della nomenklatura riunita al compleanno di Goffredo Bettini, riverito come un sultano asiatico da maggiorenti pentastellati e dirigenti Rai, ex presidenti del Consiglio e ministri in carica, neo-sindaci e assessori, vecchi manager e nuovi boiardi. Bruciare lo sterminato elenco telefonico piddino degli auto-candidati al Colle. E quanto meno, se non un nome, indicare un metodo, un profilo, un identikit. L’intervista che pubblichiamo oggi con il segretario sembra andare in questa direzione. Vedremo cos’altro seguirà.
“The Magic Mario”, come lo definisce l’Economist, è la miglior riserva della Repubblica che abbiamo mai avuto da un paio di decenni a questa parte. Non possiamo permetterci di perderla, qualunque sia la sua prossima missione. Ma non può permetterselo neanche lui. Dovrebbe aiutare, e per ora non lo fa. Come il generale marqueziano, è chiuso nel suo labirinto. Palazzo Chigi, più che trampolino, è diventato la sua gabbia. Sta governando bene? E allora perché dovrebbe lasciare? È quello che pensano in molti, nell’establishment economico: ad esempio Carlo Messina, ceo di Intesa Sanpaolo, la banca che vale più di un ministero delle Attività Produttive. Sta cominciando a governare male? E allora perché dovrebbe avere in premio il Quirinale? È quello che pensano altri, nell’apparatchiki politico: ad esempio i capibastone che vogliono cucinarselo nell’anno elettorale, o i peones che hanno il sacro terrore del voto anticipato.
Prodi, che l’ha patita sulla sua pelle, avverte che la corsa al Colle si vince non con più voti, ma con meno veti. Così Draghi, se aspira ma non costruisce per tempo le condizioni per l’ascesa, rischia di perdere la scommessa del voto segreto, e dunque di perdere tutto. Cade lui, cade il governo, si torna a votare comunque. L’ultima ipotesi che circola è che per giocare al meglio le sue carte possa dimettersi un minuto dopo il varo della manovra, consentendo a Mattarella di fare consultazioni-lampo e formare a gennaio un governo fotocopia, con un premier scelto tra i ministri e con la stessa maggioranza, prima della convocazione dei grandi elettori per il Quirinale a febbraio. Può essere uno schema efficace. Benché, anche in questo caso, i precedenti non siano favorevoli: nella storia patria, nessun presidente del Consiglio è mai diventato presidente della Repubblica. Ma nel creativo e spesso pasticciato laboratorio italico c’è sempre una prima volta.
“Arcana imperii” difficili da spiegare e da capire, per un normale cittadino che spera solo in una dignitosa stagione di normale buongoverno. Fermo restando che la già logora maggioranza di “unità nazionale” deve consentirgli di poterlo fare con il piglio riformatore di cui c’è assoluto bisogno, adesso sta a Draghi decidere se vuol continuare a incarnare quella stagione. Sta a Draghi fare una scelta più impegnativa, oltre a quella tra l’Aperol e il Campari. Un leader internazionale del suo calibro, a differenza di altri, la politica non può farla al bar.
LA STAMPA
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