Evasione fiscale: cosa gli Usa ci nascondono sui conti degli italiani in America

di Milena Gabanelli e Giuseppe Sarcina

Rigore a senso unico su tasse ed evasori: il governo degli Stati Uniti è sempre più severo con i propri contribuenti, ma poi protegge gli stranieri che imboscano denaro sul territorio americano. Joe Biden e la Segretaria al Tesoro, Janet Yellen hanno lanciato un’aggressiva campagna politica, economica e anche culturale contro evasione tributaria, paradisi fiscali, riciclaggio e corruzione. Tutto bene, se ci non fossero alcune vistose contraddizioni che inquinano i rapporti tra gli Stati Uniti e il resto del mondo, in particolare con noi europei. Nel Dataroom del 26 aprile scorso (qui) abbiamo visto le strategie aziendali per eludere le imposte, e come i big del digitale siano in grado di quasi azzerare il carico tributario spostando gli utili da un territorio all’altro. Con la global minimun tax si fa un piccolo passo avanti verso l’equità. E su questo dobbiamo ringraziare Biden. Come invece garantire che anche i singoli cittadini paghino il dovuto all’erario, senza nascondere soldi su conti bancari o fiduciarie oltre confine?

Scambio di informazioni fiscali: come funziona

Già sette anni fa, esattamente il 15 luglio del 2014, il Consiglio dell’Ocse (Organizzazione cooperazione e sviluppo economico) ha adottato il «Common Reporting Standard (Crs)», un protocollo che prevede lo scambio sistematico di informazioni fiscali a livello internazionale. Da una parte le banche, i fondi di investimento, le fiduciarie, i trust e altre finanziarie sono tenute a comunicare tempestivamente alle autorità del proprio Paese come hanno operato i cittadini stranieri (solo persone fisiche, non società di capitali) sui quattro «canali» da cui transitano le ricchezze Eccoli: conti di deposito (cioè conti corrente, conti commerciali, libretti di risparmio); conti di custodia detenuti da fiduciarie o trust; azioni e altre forme di capitale a rischio; contratti di assicurazione. Dall’altra i Ministeri delle Finanze inviano un rapporto ai partner del Crs. In questo modo, per esempio, la nostra Agenzia delle Entrate comunicherà a Berlino cosa possiedono i cittadini tedeschi nel nostro Paese e viceversa la Germania farà la stessa cosa con noi. E così tutti gli altri, in una fitta rete di relazioni multilaterali.

Gli Usa non aderiscono

I primi scambi di informazioni sono iniziati nel 2017, ed abbiamo scoperto che ne per esempio nel nostro Paese 2 milioni di cittadini italiani hanno 3 milioni di conti esteri (soprattutto in paesi a fiscalità agevolata) su cui sono depositati 210 miliardi di euro. All’intesa dell’Ocse aderiscono 112 Stati: i 27 Paesi dell’Unione europea, Gran Bretagna, Cina, Russia, India, ma anche Svizzera, Isole Vergini Britanniche, Isole Cayman, Barbados, Bahamas eccetera. C’è solo un grande assente: gli Stati Uniti. La scelta di Washington ha sorpreso anche gli alleati più stretti, visto che l’Ocse si era attivata su impulso del G20, di cui gli americani sono protagonisti. Per altro il nuovo corso voluto da Biden, la «lotta senza sconti alle astuzie fiscali», avrebbe come logico sbocco la piena sottoscrizione del «Crs», ma non sarà così neanche nel prossimo futuro. È una storia che comincia undici anni fa e che illustra bene quale sia l’idea di «collaborazione internazionale» coltivata dai governi americani, democratici o repubblicani che siano, quando c’è di mezzo la condivisione di database considerati sensibili.

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