Sorpresa: la Lega del Pil è la più feroce coi no vax

È tornato il Covid, o meglio, poiché non se ne è mai andato, è finita l’allegra rimozione del Covid dal discorso pubblico, compreso un estenuante dibattito sul Quirinale, come se “mister virus” non fosse, in quanto principio di realtà, il primo vero grande elettore del prossimo capo dello Stato. L’elemento decisivo di contesto. Fu la ragione per cui Mattarella, non potendo sciogliere le Camere, con una campagna vaccinale da avviare e un Pnrr da approvare, chiamò Mario Draghi offrendolo a un sistema politico in crisi. Potrebbe essere la ragione che lo imbullona lì, in nome della ragion di governo e della sua continuità, se le previsioni di un aumento del 30-35 per cento dei contagi dalla settimana dal 6 al 13 dicembre e in quelle successive – questi sono i dati previsionali del Cts – saranno confermati. Non è banale che le urne presidenziali si apriranno, a metà gennaio, proprio nel momento dell’atteso picco virale.

È la “pandemia dei non vaccinati”, in un paese che, nel suo insieme, sta meglio di un anno o di sei mesi fa grazie a una campagna vaccinale riuscita, e recepita con responsabilità dall’86 per cento degli italiani. Se non ci fossero i vaccini, tutta la discussione, come un anno fa sarebbe sulle chiusure, non su come incentivare, con misure più o meno draconiane, i vaccini, in un paese che è aperto: vive, lavora, produce e fa il +6% di Pil. Ma questa nuova ondata reca in sé nuovi conflitti, sociali ed emotivi, nella struttura materiale del paese perché l’Italia, a torto o a ragione, non è la Gran Bretagna dove la “pandemia” è stata derubricata a “epidemia” e si va avanti nonostante l’alto numero di contagi. La proposta, avanzata con diversi gradi di intensità dai governatori di centrodestra del Nord di una “via austriaca” con misure punitive per i no vax, segnala proprio questo groviglio di contraddizioni, tutto italiano, all’incrocio tra allarme reale e preoccupazioni di basso consenso elettorale.

Due le contraddizioni, anche piuttosto clamorose. La prima è quella di un partito, la Lega, che a livello nazionale ha lisciato il pelo ai no vax e ora, sia pur in misura minore dopo la scoppola elettorale, si dice contraria a restrizioni e con i suoi governatori di punta esprime una linea più dura dello stesso ministero Speranza, peraltro avanzata dal presidente della Conferenza delle Regioni all’insaputa delle Regioni. La seconda riguarda proprio i governatori leghisti, non Giovanni Toti che su questo ha avuto una granitica coerenza. Solo tre settimane fa gli alfieri leghisti del “partito del Pil” lanciarono l’allarme sul Green Pass in base alla preoccupazione che le imprese del Nord non avrebbero più trovato manodopera da assumere ed ora, di fronte all’esplosione dei contagi in Veneto e in Friuli, ne propongono un’estensione ai limiti della discriminazione. Un’oscillazione politica non nuova, che riproduce una sorta di sindrome Nimby, inteso come cortile elettorale, per cui, quando c’era da chiudere, si potevano serrare le scuole ma i ristoranti dovevano rimanere aperti e, quando c’era da aprire, sempre i governatori si misero alla testa della protesta dei ristoratori. Adesso, sempre in nome del Pil, si propone di mandare a ristorante solo i vaccinati, come in Austria, a prescindere da quei tamponi su cui gli stessi governatori fecero una battaglia per metterli a carico dello Stato o a prezzi calmierati, legittimando i no vax.

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