Draghi e Colao, dateci la linea su Tim e la Rete

C’è uno storico “caso Tim”, che l’azionariato e il management attuale non hanno risolto. Pesano le tante anomalie “proprietarie” (le conosciamo tutti, ormai da parecchi anni). Un primo socio come la Vivendi di Bolloré che, tra un’incursione avventurista su Mediaset e un’infatuazione sovranista su Eric Zemmour, non sa bene cosa fare del suo 23,7 per cento. Un socio “minore” come Cassa Depositi e Prestiti, che col suo 9,81 per cento fa blocco per conto del Tesoro, ma che per un inspiegabile kamasutra tricolore possiede anche il 50 per cento di Open Fiber, rete cogestita con Enel e concorrente della stessa Tim. E pesano anche le scommesse industriali sbagliate (le ha raccontate Marco Zatterin, su questo giornale). La sfortunata operazione con Dazn, per vendere insieme calcio, contenuti e abbonamenti. Una postura troppo difensiva sulla rete e poco incisiva sul debito. Due “profit warning” in pochi mesi. Gubitosi paga tutto questo. E opportunamente si fa da parte, senza aspettare il benservito. Ma è solo un altro manager che passa e va. La “vicenda Tim” va osservata con sguardo più esteso e più profondo.

Il primo nodo è strategico. C’è da chiedersi se Kkr sia un’alternativa valida a tutto ciò che abbiamo visto e conosciuto fino adesso. Una manifestazione di interesse di un colosso finanziario Usa che ha un giro d’affari di 400 miliardi è un segnale sicuramente positivo. E non lo ridimensiona il fatto che non si tratti di un operatore del settore: la testa di ponte dell’attuale cda non fu un fondo di private equity come Kkr, ma un “fondo avvoltoio” come Elliott. Ognuno ha il fondo che si merita. Detto questo, le incognite non mancano. Intanto, la società americana (cioè il soggetto dell’operazione) non ha comunicato nulla di formale, né al mercato ignorante né alla Consob dormiente. Lo ha fatto invece Tim (cioè l’oggetto). Quella degli americani non è un’Opa vera e propria, ma per ora solo una “manifestazione di interesse non vincolante”. Il suo prezzo, 0,505 euro per azione, è “meramente indicativo”. La durata della proposta è di “quattro settimane”, perché nel frattempo il fondo chiede una “due diligence” sui conti. Come se non si fidasse del bilancio di una spa quotata in Borsa. Strano, ma vero.

Ma se l’Opa arriverà sul serio, cosa vuol fare Kkr della sua preda? Pare torni in auge il solito, famigerato “spezzatino”. Cioè lo scorporo delle attività del gruppo, e la vendita dei suoi singoli pezzi. Conviene sul piano dei numeri: Intermonte calcola che la somma del valore delle singole attività di Tim raggiunga i 22,5 miliardi, cioè più del doppio del valore unitario dell’azienda. Ma c’è il problema della rete. E anche qui pare stagliarsi un “evergreen”: la separazione successiva alla vendita allo Stato, che finalmente metterebbe in piedi l’agognata rete unica modello Terna (verosimilmente in casa Cdp), completandone la trasformazione ultra-veloce e offrendola a tariffa per tutti gli operatori telefonici privati. Il famoso “Piano Rovati” (consulente di Prodi premier nel 2007), quindici anni dopo. Ha un senso. Ma pende la spada di Bruxelles, che dopo il disastro Alitalia non ci farà mai più sconti sugli aiuti di Stato. E soprattutto pende il silenzio del Mef, che attraverso il ministro Franco ha in mano la sua brava “golden share”.

È il secondo nodo, ed è politico. Tim è potenzialmente una delle chiavi dello sviluppo e della modernizzazione del Paese. Possiede il grosso delle infrastrutture di rete, fissa e mobile. Dispone dei cavi sottomarini di Sparkle (l’altra rete, quella ancora più sensibile, sulla quale transitano i dati del traffico mondiale). È una struttura nevralgica, per il supporto alla cybersicurezza e al Cloud sul quale dovrebbe passare l’intero patrimonio digitale della Pubblica Amministrazione. Il suo destino ci riguarda, non solo come utenti ma come cittadini. E chiama in causa la Politica, molto più che il Capitale. Cosa pensi il governo della partita in corso, è questione che ricorda l’Unione Sovietica secondo Churchill: un indovinello, avvolto in un mistero, all’interno di un enigma. Il premier Draghi, finora, ha piantato tre paletti: la protezione dell’occupazione, la protezione della tecnologia, la protezione della rete. Troppo poco e troppo vago. Il ministro Vittorio Colao, se possibile è stato ancora più evasivo. Da quando è in carica, non una parola chiara o un’indicazione di rotta. Né sul futuro dell’azienda, che giustamente non gli compete. Ma neanche sull’assetto del settore, che necessariamente lo interroga. Palazzo Chigi ha un disegno sulla rete? E per quanto ammaccato, che ruolo deve avere il nostro “campione nazionale” delle telecomunicazioni nel Pnrr, nel Cloud, nel 5G, nell’Internet delle Cose? Governo, se ci sei, dacci la linea.

LA STAMPA

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