I leader irritati dal metodo Draghi. Salvini: dica cosa vuole fare sul Colle

Questa agitazione e questo nervosismo sono diffusi. Anche a sinistra e nel M5S il tema è quotidiano. Da settimane si attende un gesto, una parola, un abbozzo di strategia su come il premier intenda andare al Quirinale senza spegnere la luce sulla legislatura. O, al contrario, un segnale inequivocabile che voglia restare a Palazzo Chigi. Cosa che finora non c’è stata. Gira una frase che tra la corrente di Base riformista del Pd e Italia Viva viene attribuita a Matteo Renzi: «Draghi è uno che non manda mai indietro l’ascensore». Come a dire che non tiene in considerazione i piani dei leader, nemmeno chi ha lavorato per portarlo a guidare il governo. Il rottamatore ne farebbe anche una questione personale, per essere stato tenuto ai margini in questi mesi, in un paio di casi con il suo partito escluso dai vertici.

Draghi, fedele al suo metodo, ha invece convocato i gruppi per parlare di manovra. Ha iniziato con il M5S. I soldi sono pochissimi, 600 milioni di euro, una virgola rispetto alle richieste che esondano dai partiti e che costringerebbero il governo a rivedere i saldi. Eppure al tavolo sono invitate tutte le formazioni della coalizione, anche chi non siede al governo e non partecipa ai vertici. Come Coraggio Italia, e le Autonomie, aggiunto dal premier in extremis, dopo una svista iniziale. Complessivamente, la fotografia di questi tre giorni di colloqui produce un “effetto consultazioni” sui partiti, come se il premier stesse cercando una strada di dialogo e di legittimazione con chi materialmente avrà il potere di far fallire le candidature al Quirinale. I parlamentari, appunto.

In questo senso, basta andare indietro di un giorno. E rileggere, contestualizzandole meglio, le parole di Di Maio quando afferma che bisogna fare di tutto per evitare di bruciare Draghi. Cosa abbia voluto dire lo traduce più fedelmente chi gli ha parlato in queste ore: se Draghi vuole davvero giocarsi una chance per il Quirinale deve preparare il terreno placando l’ansia dei parlamentari che temono il voto anticipato con il passaggio del premier al Colle. Tra i veti che arrivano da ogni parte, soprattutto dal Pd, «il rischio – sostiene Di Maio – è che salti tutto». Se Draghi dovesse essere nominato e non spuntarla nelle prime quattro votazioni, quando il presidente della Repubblica si elegge a maggioranza qualificata, sarebbe una catastrofe. Suonerebbe, secondo il ministro, come una sfiducia di fatto. Dalla quarta in poi entrerebbero in gioco altri candidati, al momento improbabili, a partire da Berlusconi. Per questo, se il nome di Draghi entrerà in corsa, bisognerà tenerlo coperto fino alla quarta votazione.

LA STAMPA

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