Cosa resta del pensiero
La filosofia è sempre stata attratta, ma anche insidiata, da due rovinose tentazioni: chiudersi in se stessa, astraendosi completamente in un accademismo sterile, oppure sbarazzarsi di sé, diventando assolutamente altro, imitando le discipline tecno-scientifiche. Queste due tentazioni rischiano oggi di coniugarsi in una chiusura duplice e potenziata.
Dove i saperi sono consegnati al calcolo e alla simulazione tecnologicamente assistita, dove dilagano le procedure di semplificazione, spacciate per procedure di verità, dove ogni conoscenza ha il suo posto e il suo compito performativo, la filosofia finisce per essere esautorata. Il problema non sta tanto nel cosiddetto specialismo, bensì nell’autoreferenzialità di ogni sapere che non percepisce più il proprio limite e che soprattutto non guarda oltre. Manca allora il raccordo, vengono meno i passaggi, i varchi.
Si è diffusa negli ultimi tempi una filosofia di stampo normativo che, lontanissima dalla radicalità del pensiero novecentesco, ha assunto una funzione dichiaratamente ancillare non solo nei confronti della scienza, ma anche nei confronti della politica, o meglio, dell’economia. Così ha accettato di non farsi troppe domande; anche perché ogni alternativa sarebbe stata stigmatizzata.
D’altronde sulla filosofia pesa da tempo quel discredito che la annovera tra i relitti teologici del passato o la denuncia come fuga irresponsabile in un mondo di sogni evanescenti. A che servirà mai la pura teoresi? Una conoscenza che non è spendibile, che non ha ricadute sul mercato? C’è ancora tempo per improduttive speculazioni su problemi insolubili e irrisolti?
Il vecchio pregiudizio contro la filosofia raggiunge forme iperboliche in questi anni di pandemia dove, malgrado esitazione e incidenti di percorso, il trionfo della scienza è tale da assurgere a paradigma della speranza e soppiantare la politica. Per certi versi non stupisce che una politica già subalterna all’economia, e ridotta a governance amministrativa, si mostri propensa ad abdicare apertamente alla scienza. Ma proprio nella pandemia è venuta alla luce tutta la rischiosa ambivalenza di questo rapporto. Chi si serve di chi? Il politico dell’esperto? Se è prudente ricorrere al parere dell’esperto, è rischioso lasciargli l’ultima parola, come se il suo giudizio fosse l’istanza decisionale suprema. La sua autorità illimitata si staglia già sovranamente nella sfera oscura dell’eccezione. Ecco perché l’abbandono fideistico nei poteri della sua perizia nasconde pericoli imponderabili.
Da un canto l’autorità di cui la scienza gode libera dalla responsabilità di una decisione che sembra obiettiva; dall’altro la scienza stessa si rivela incapace di assumersi le proprie responsabilità, nel senso che non è in grado di dar conto dell’importanza che ha assunto, incline, com’è, a sottomettere la vita, a spiegare il vivente, anzi a fabbricarlo. Il che avviene in quello stretto connubio con la tecnica e l’aziendalismo, un connubio favorito dal suo carattere operativo, dalla straordinaria rapidità delle scoperte, mentre i risultati passano immediatamente al consumo, accolti dalla voracità commerciale. Disseminata nella iperspecializzazione delle sue discipline, la scienza appare spensierata, e cioè lontana dallo sgomento, incapace di avvertire nel profondo la minaccia. Sono i limiti di una ricerca votata alla sperimentazione e alla soluzione dei problemi, anzi delle questioni più urgenti – che perciò non si abbandona a cercare quel che nessuna invenzione potrà mai trovare – l’impensato, l’inatteso.
L’ulteriore pericolo è lo stravolgimento del rapporto tra mezzi e fini. Il potenziamento dei mezzi di controllo rende superflua la scelta dei fini – il produrre tecnico rende superfluo l’agire politico. Se il depositario di un sapere specifico conosce i mezzi, non necessariamente vede con lucidità i fini. La politica a cui si vuole imporre il modello scientifico sarebbe quella il cui funzionamento è già un valore in sé, a prescindere da ogni contenuto. Si tratterebbe della perfetta amministrazione il cui ideale è la neutralità e che, in fondo, non ha più ideali. Non importa che nel mondo ci siano giustizia, uguaglianza, solidarietà – importa che venga ben amministrato.
Ma i mezzi non bastano e dei fini non si può fare a meno – proprio nell’incombenza di quella fine prodotta dalla fusione fra tecnoeconomia e biosfera. Come insegnavano i greci, la scienza non è felicità. E affinché la pólis non sprofondi nel sonno dell’isolamento è necessario, come suggeriva già Eraclito, il legame del lógos, in cui si raccoglie il koinón, ciò è comune, e accomuna in vista dei fini, occorre quel comunismo originario della vigilanza di cui è custode la filosofia. —
LA STAMPA
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