Cina, 20 anni nel Wto: gli aiuti di Stato e tutte le altre regole violate nel commercio

di Milena Gabanelli e Danilo Taino

Vent’anni fa, nel 2001, il Prodotto interno lordo (Pil) della Cina era di 1.339 miliardi di dollari. Quello stesso anno, esattamente l’11 dicembre, il Paese raggiunse l’obiettivo che si era posto da un quindicennio: entrare nella Wto, l’Organizzazione Mondiale del Commercio.

Essere cioè ammesso nel sistema di scambi internazionali fondato su regole e con dazi vantaggiosi. Il risultato è che nel 2021 il Pil della Cina supererà il 15 mila miliardi di dollari. Quell’11 dicembre fu un punto di svolta: ha dato forma al Ventunesimo Secolo. In positivo e in negativo. Oggi, è il problema che hanno di fronte le economie di mercato e le democrazie.

Le ragioni di una svolta

Nella primavera del 2000 il Congresso americano dette il suo via libera all’accettazione di Pechino nella Wto. «Un passo storico – commentò l’allora presidente Bill Clinton – verso la continuazione della prosperità in America, la riforma in Cina e la pace nel mondo». Nel maggio dello stesso anno anche la Ue raggiunse un accordo con la Cina che ne apriva la strada all’Organizzazione. E così avevano fatto tutti i membri della Wto. «Il Dragone diventa globale» era il commento degli esperti di commercio e di politica internazionale, avidamente rilanciato dai media del mondo. L’idea era che portare l’allora quinta economia del pianeta nel sistema commerciale condiviso l’avrebbe aiutata a crescere ulteriormente, l’avrebbe spinta a riformarsi nel senso del libero mercato, avrebbe corretto le sue pratiche anti-competitive e l’avrebbe inevitabilmente spinta verso un’apertura politica.

I benefici per i consumatori

Dal punto di vista macroeconomico, l’ingresso cinese nella Wto ha facilitato un boom dei commerci e uno spostamento del centro dell’attività manifatturiera dall’area atlantica a quella del Pacifico. Il processo era già in atto, sia per l’emergere di altre economie asiatiche nel dopoguerra, sia per l’apertura della Cina al mondo decisa da Deng Xiaoping nel 1978. Ma l’ingresso del gigante asiatico nell’Organizzazione degli scambi significava che avrebbe beneficiato di tariffe migliori per le sue esportazioni, in cambio di dazi minori al suo import e rispetto di una serie di regole. I benefici per il resto del mondo ci sono stati. Innanzitutto per i consumatori, i quali hanno visto arrivare nei propri mercati prodotti «made in China» di ogni genere a basso prezzo. In secondo luogo per le multinazionali, che hanno avuto l’opportunità di entrare in un mercato in crescita continua e potenzialmente enorme: nell’elettronica, le aziende americane e giapponesi; nel settore auto, le americane, le tedesche, le nipponiche, le coreane; nella moda e nel lusso, il «made in Italy» ma anche i francesi e gli americani; i produttori di semiconduttori e di tecnologia avanzata. La Cina è così diventata via via la «fabbrica del mondo» e un mercato in espansione senza precedenti.

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