Quei veleni che fanno male al Colle

Montesquieu

D’un tratto, da confusa e disordinata, ma tutto sommato innocua, addirittura godibile, la campagna per il nuovo Capo dello Stato si fa sgraziata e perniciosa. In una settimana, un’ondata di incoscienza trascina sul terreno rozzo della convenienza politica i due protagonisti della ripresa del paese, dell’orgoglio ritrovato. La Germania che sogna di essere l’Italia, servono altre parole? Le figure del capo dello Stato e di quello del governo non ricevono dal giorno della loro convivenza un accenno critico, nemmeno da chi senza nemici diventa impotente, ridotto al silenzio. Rarefatte le opposizioni, e comunque civili, quasi un ritorno ad un passato rimpianto. Cosicché, nel periodo in cui è divenuta siderale la distanza degli italiani da tutto ciò che è politica e per connessione istituzioni, si è fatto strada con impercettibile, dolce prepotenza un sentimento inedito, anacronistico, di riconoscenza, di attaccamento.

Quello per il collaudato presidente della Repubblica è maturato praticamente da zero: antico militante della politica, ufficialmente quindi di parte, incapace di qualsiasi atteggiamento idoneo a catturare consenso. In questo caso, si può parlare addirittura di affetto, di fiducia vera, di gratitudine: sentimenti i più estranei, i più ignoti alla relazione tra i cittadini e le istituzioni. L’altro, il governante, Mario Draghi, scovato dal capo dello Stato per ridare fiducia dentro e fuori i nostri confini, per rimettere a posto le troppe cose fuori posto, è oggetto di una stima più mirata, più professionale. Insieme, rigorosamente insieme, hanno fatto maturare la generale convinzione di una eccezionale, fin qui mai vista, insostituibilità. Per trovare qualcosa di simile, sotto il profilo del trasporto popolare, dell’attaccamento, bisogna risalire al tempo della presidenza di Sandro Pertini, sia pure con caratteristiche assai diverse. Più istintive, più caratteriali, meno solide, allora.

Niente di più logico, di più conseguente, che la convergenza di desiderio popolare e convenienza politica, con diverse radici e prospettive, uniti dal desiderio del proseguimento di entrambi nel servizio intrapreso. Sergio Mattarella lo esclude, per la propria parte, con l’umiltà di chi ritiene che non pochi connazionali siano capaci di sostituirlo con pari se non maggiore efficacia. E’ fatto così, davvero. Anche fosse vero, e almeno statisticamente non può non esserlo, quello che una singolare umiltà non consente di vedere al presidente ancora in carica è la lunga maturazione che ha portato al suo legame speciale, soprattutto in tempi di populismo, con il popolo. Il tempo di questa maturazione oggi non c’è, minimamente, la continuità è vitale. Nessun italiano può immaginare lontanamente che la sacrosanta scelta personale possa in caso di necessità prevalere, nel personaggio in questione, sul bene del paese. Basterebbe lasciarlo in pace. Una improvvida , sciocca, presuntuosa iniziativa legislativa, fine a se stessa, sembra cercare un pretesto , in una astuzia poco nobile, che rimuova la decisione del capo dello Stato, quasi strizzandogli sguaiatamente l’occhio . Con contestuale imprevidenza e malagrazia, si pretende a gran voce dal capo del governo, quasi strattonandolo, di decidere subito, senza perdere altro tempo , il suo immediato futuro. Per dirla senza mezzi termini: di sistemarsi al Quirinale, ovvero di restare dove sta. Curiosità importante e fondata, soprattutto oggi: ma il modo offende.

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