La politica e l’idea di patria
Soltanto in democrazia è garantita a tutti la più ampia libertà di pensiero, e quindi il vincolo patriottico può includere virtualmente ognuno
È un interesse primario della democrazia italiana che vi sia una Destra libera da qualunque interdetto ideologico e quindi pienamente legittimata a governare, e da tempo Giorgia Meloni, con la sua vivida intelligenza politica e la sua personale simpatia (che in politica conta, eccome!) si sta dimostrando capace di fare molti passi importanti su tale strada. Proprio per questo è utile cercare di chiarirsi le idee sull’uso sempre più insistito del termine «patriottismo» che la stessa presidente di Fratelli d’Italia va facendo da qualche settimana e da ultimo anche in relazione alla figura del prossimo presidente della Repubblica che essa reclama che sia un «patriota». Patria e patriottismo, infatti, sono cose troppo importanti perché sull’una e l’altro permanga qualche equivoco.
Una cosa allora va detta prima di ogni altra, specialmente nel caso di un regime democratico come il nostro: il patriottismo non può essere un monopolio di nessuno. Il patriottismo non è un’opzione politica, talché si finisca inevitabilmente per concludere che sarebbe patriota chi la pensa come noi e invece non lo sarebbe chi ha opinioni diverse o magari opposte. Ciò vale anche nel caso di questioni d’importanza capitale. Nel 1947 Croce e Salvemini, i quali erano convinti che non si dovesse firmare il Trattato di pace imposto dai vincitori all’Italia, da essi giudicato un diktat umiliante e ingiusto, non erano certo meno patrioti di De Gasperi o di Nenni che invece credevano fosse più conveniente all’interesse del Paese firmare quel Trattato.
Che cosa sia più congruo all’interesse nazionale in una data circostanza — e quindi in questo senso più patriottico — è materia di giudizio politico, in cui entrano in misura decisiva i nostri valori, la nostra visione del mondo, al limite le nostre simpatie e antipatie. E dunque bisogna stare molto attenti a spiccare condanne di «antipatriottismo». Anche in casi di errori politici conclamati. Il patto di Londra, ad esempio, con il quale l’Italia entrò nella prima guerra mondiale (chiedo scusa per questi riferimenti storici ma la storia è una galleria di casi concreti che servono bene a spiegarsi), il patto di Londra, dicevo, per le sue clausole e la sua complessiva scarsa lungimiranza doveva rivelarsi per l’Italia, a guerra finita, un campionario di errori catastrofici. Ma a nessuno verrebbe mai in mente per questo di accusare Sidney Sonnino, il ministro degli esteri che nell’aprile del 1915 firmò quel patto, di non essere un «patriota». In un certo senso, anzi, lo era fin troppo.
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