Povertà, le mille ombre dell’Italia: gli indigenti aumentati del 22% rispetto all’anno scorso
Francesca Mannocchi
Marina ha lasciato la provincia romana vent’anni fa per scappare da un uomo violento che minacciava lei e suo figlio. Oggi Marina vive a Baggio, periferia occidentale di Milano, in una casa di quaranta metri quadri appena. Il figlio dorme sul divano letto e non vuole che la madre lo chiuda al mattino «perché è la sua stanza – dice Marina – se ogni giorno lo ripiego e lo rimetto a posto dice che si sente un ospite». La sua stanza è quel divano aperto tra la tv e l’angolo cottura.
Alle tre del pomeriggio, la casa profuma di sugo. L’acqua è sul fuoco da un po’, Marina aspetta che torni il ragazzo che ha da poco ripreso a lavorare come autista per le mense scolastiche. È stato fermo, senza stipendio, durante tutti i mesi di lockdown e di scuole chiuse. Anche lei è rimasta a casa, lavorava come cameriera ai piani in un hotel del centro. Dice: «Lo sai quanto costa la tessera mensile dei mezzi pubblici? Quaranta euro». Alla fine delle prime chiusure, con la cassa integrazione che non arrivava, non aveva risparmi neanche per comprare un biglietto giornaliero della metro per raggiungere il centro città: quattro euro. Marina ha un contratto a tempo indeterminato, «pensi che questo mi renda più fortunata di altri, ma è un’illusione». Nonostante le garanzie previste dal suo contratto, l’anno scorso per i sussidi ha aspettato mesi e ha dovuto chiedere un aiuto per mangiare, diventando, come migliaia di altri a Milano, beneficiaria di un pacco alimentare settimanale.
Tentenna Marina, omette, menziona la sua storia come una storia comune, il destino di molti: «Ho visto tante facce che conosco in coda per il pacco. Non sono mica la sola«. Non lo è, ma ribadirlo le serve a sottolineare quanto diffusa sia la povertà alimentare a Milano, certo, ma anche a condividere un imbarazzo. Ho bisogno d’aiuto, dice il suo volto, ma almeno non sono sola, «anche la Alessia ha bisogno, me l’ha detto lei che al parco il sabato mattina distribuiscono le scatole, non ho problemi solo io».
Mal comune, mezzo gaudio.
Ora ha ripreso a lavorare, ma al pacco alimentare non rinuncia perché ha debiti da ripagare, eredità del 2020, e «perché non si sa cosa succederà domani».
Intanto la pentola a bollire sul fuoco è il solo angolo caldo di casa. Marina ha due maglioni, la felpa e la sciarpa. I pantaloni della tuta sono lisi all’altezza delle ginocchia e il colore sbiadito di un capo lavato troppe volte.
Nel 2016, gli economisti e ricercatori Keti Lelo, Salvatore Monni e Federico Tomassi hanno mappato alcune città metropolitane italiane, mettendo a confronto Roma, Milano, Napoli e Torino. Nel libro Le mappe della disuguaglianza (Donzelli), analizzano i dati e le conclusioni che propongono, riflettono le realtà di grandi centri urbani caratterizzati da una comune natura multi dimensionale delle disuguaglianze: elevati differenziali nei livelli di istruzione, nella dotazione di servizi, delle attività culturale, dunque di opportunità economiche. Disuguaglianze che non solo coesistono le une con le altre, ma si alimentano a vicenda.
Milano ha una popolazione residente di un milione e trecentomila abitanti, la metà di Roma. È sette volte più piccola della capitale, ed è la città più ricca d’Italia, con una dichiarazione reddituale media di 36 mila euro, otto mila euro più di Roma «eppure mantiene i medesimi problemi di disuguaglianze strutturali – spiega uno degli autori, Salvatore Monni, economista dello sviluppo – paradossalmente la presenza di redditi molto elevati a volte impedisce di vedere. Nelle città più povere è più facile immaginarci queste disuguaglianze, in città con più benessere, proprio in virtù della loro ricchezza, siamo portati a vedere le luci splendenti. Questo è il periodo dell’anno in cui le luci sono più splendenti: forse è la ragione per cui non ci accorgiamo di queste differenze».
Differenze che continuano a crescere. Estremità che continuano ad allontanarsi.
Secondo il rapporto Censis-Tendercapital Inclusione ed esclusione sociale: cosa ci lascerà la pandemia, pubblicato pochi giorni fa, più si protrae l’emergenza da pandemia, più tutte le persone che vedono drasticamente ridurre i propri risparmi saranno esposte al rischio di finire in povertà assoluta. Nel 2005 viveva in povertà assoluta il 3,3 per cento della popolazione residente in Italia. Oggi, sedici anni dopo si trova nelle medesime condizioni il 9,4 per cento della popolazione. Cinque milioni e mezzo di persone, il 22 per cento più dell’anno scorso. Tra loro un milione e trecentomila bambini. «La maggioranza delle persone che aiutiamo è composta da giovani, tante sono donne. Molte di loro sole con bambini», dice Francesca Agnello, la responsabile del progetto Nessuno Escluso, un programma di supporto alimentare che va avanti da giugno del 2020.
All’inizio della pandemia, i volontari di Emergency si erano messi a disposizione per andare a fare la spesa alle famiglie e soprattutto agli anziani che non uscivano di casa per paura del contagio. Prendevano le liste della spesa, i loro soldi e tornavano a casa con le buste e il resto del denaro.
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