Draghi, il piano per andare al Colle passa dal governissimo bis. I timori che la Lega si sfili

Ilario Lombardo

ROMA. Il difficile per Mario Draghi comincia ora. Ora, perché mai il presidente del Consiglio si era esposto così esplicitamente sulla possibilità del suo trasferimento al Quirinale. Niente più maschere, niente più infingimenti. A Palazzo Chigi non si sono scomposti più di tanto a leggere la batteria di dichiarazioni dei partiti che lo vorrebbero ancora lì, alla testa del governo, fino al 2023. Reazioni a caldo derubricate alla solita, nervosa sintomatologia: la paura della fine anticipata della legislatura che attanaglia i parlamentari.

Tutto era pronto. Il senso della conferenza stampa e il messaggio erano già nel discorso rivolto agli ambasciatori martedì, quando Draghi ha detto che il Piano nazionale di ripresa e resilienza «non è il piano di questo governo» ma di tutto il Paese. Un assaggio di quanto avrebbe ribadito in tante risposte il giorno dopo. La necessità di garantire la stabilità, economica e politica, è l’orizzonte di cui ora vuole farsi interprete. Gli elogi ai parlamentari e il richiamo alla responsabilità di un governo che al di là «dei destini personali» di chi lo guida ha il dovere di attraversare integro tutto il 2022 sono le rassicurazioni sul prosieguo della legislatura.

Ma è in quell’insistere sull’unità nazionale che Draghi svela il primo grande ostacolo sulla strada che porta al Colle, di cui è pienamente consapevole. Cosa farà la Lega? Matteo Salvini lo ha detto più volte: Draghi rappresenta l’architrave di un governo di tutti, che il leader del Carroccio soffre a livello elettorale. Che la Lega si sfili è uno scenario dato per scontato e con cui a Palazzo Chigi fanno già i conti. Perché, senza Salvini l’intero edificio della maggioranza potrebbe crollare e trascinarsi dietro le ambizioni del Quirinale. A meno che, in un sommo sacrificio, il M5S, il Pd, Leu e Forza Italia non trovino ragioni sufficienti per rimanere assieme e arrivare alla fine della legislatura con i sovranisti del Carroccio e di Fratelli d’Italia fuori a sfidarsi a colpi di opposizione.

Ma questo è il piano B. Il primo obiettivo è tenere dentro la Lega. Draghi è controllatissimo in ogni risposta, anche quando svicola sui temi etici, come la cittadinanza ai figli degli stranieri e l’eutanasia, temi che risultano indigesti alla destra, il vero fronte da persuadere. Ma in una risposta, in particolare, offre la sua strategia per convincere i partiti. Succede quando si riferisce a Sergio Mattarella come «modello» del ruolo che intende interpretare. Non solo e non tanto per quell’immagine del «nonno al servizio delle istituzioni» che richiama i profili quirinalizi anche di Sandro Pertini e del suo maestro Carlo Azeglio Ciampi. Ma perché, al di là di impossibili velleità presidenzialiste, che lui stesso definisce lontane dalle norme costituzionali, sarebbe sbagliato, secondo Draghi, ridurre il Capo dello Stato a semplice notaio. È il «garante», e deve rimanere tale, dell’unità nazionale. Ma lo è non passivamente, tanto più in una fase in cui bisogna spingere ancora sulle vaccinazioni e assicurare la messa a terra dei progetti del Pnrr. Questo almeno fino al 2023, quando le urne decreteranno la formazione di un nuovo governo. A quel punto Draghi potrebbe già essere al Colle e nell’anno che porta al voto avrebbe comunque mantenuto la regia sugli impegni dell’Italia.

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