Così il premier apre al presidenzialismo
Marcello Sorgi
Accolta con reazioni controverse, per lo più di sorpresa, la conferenza stampa di fine anno in cui Draghi ha risposto senza reticenze sul Quirinale segna un punto di svolta nella lunga vigilia dell’elezione del successore di Mattarella. Una vecchia tradizione vuole che per il Colle non ci si candidi, semmai si lasci intuire disponibilità. Quella di Draghi – presentatosi scherzosamente come «un nonno al servizio delle istituzioni» – è stata piena. Il premier ha detto essenzialmente tre cose. La prima è che la parte più importante del lavoro del governo è finita. I 51 progetti che compongono il Pnrr sono stati consegnati per tempo a Bruxelles, la Commissione europea li esaminerà e nel giro di due mesi la seconda tranche dei 209 miliardi previsti per l’Italia potrà essere erogata.
A questo punto resta la parte di realizzazione del piano, che riguarda ministeri, regioni, comuni, imprese e ovviamente il governo. Ma non è detto che debba essere questo esecutivo a concretizzarla. Draghi infatti ha sottolineato che ciò può avvenire «indipendentemente» da lui. Così come potrebbe toccare ad altri la continuazione della lunga battaglia contro il virus, condotta fin qui con effetti riconosciuti e presi a esempio in Europa.
Il secondo punto discende dal primo: Draghi non considera questi risultati un suo merito personale. Tutt’altro: a suo modo di vedere sono il frutto della complessa collaborazione tra partiti con posizioni e radici diverse, che hanno scelto di lavorare insieme in una fase delicata della vita del Paese, aderendo all’appello del Presidente Mattarella, e dovranno continuare a farlo, perché non è proprio il momento di interrompere un esperimento così positivo, né di andare al voto: la legislatura deve arrivare alla sua scadenza naturale nel 2023. Musica per le orecchie dei parlamentari che stanno per riunirsi in seduta comune per eleggere il Capo dello Stato e temono qualsiasi destabilizzazione dell’attuale quadro politico che possa portare allo scioglimento anticipato delle Camere.
La terza annotazione è la più importante: Draghi infatti si chiede (e la risposta implicita è un «no») come potrebbe l’attuale maggioranza dividersi sul Quirinale, per poi ricomporsi subito dopo sul governo. Se si sfascia, si sfascia tutto. È evidente – e non è solo Draghi a dirlo – che sarebbe un percorso impossibile. Destinato, o a sfociare subito nelle urne, o a determinare una maggioranza diversa, sicuramente più debole (per esempio se Salvini decidesse di passare all’opposizione per competere più agevolmente con la Meloni), e anch’essa dal respiro affannoso e dallo sbocco già prevedibile nel voto anticipato. Ora, siccome non è facile che l’instabile maggioranza di unità nazionale possa trovare al suo interno un’altra personalità per dirigerla e rappresentarla, è logico che Draghi si consideri il più adatto ad essere espresso come candidato al Colle. E affidi a se stesso, una volta eletto, il compito di individuare il soggetto che, in accordo con lui, possa proseguire il duro lavoro del governo, tra Pnrr, Covid e riforme al momento affidate con delega a Palazzo Chigi, ma ancora tutte da mettere nero su bianco.
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