Omicron meno aggressiva? Il pericolo è l’impatto collettivo
di Paolo Giordano
Una riflessione sulla spinta generale a sottovalutare le insidie di una variante tutt’altro che «amica». Perché in questa pandemia ciò che avviene su larga scala ci ha sempre riguardato e ci riguarda singolarmente
Alla velocità di Omicron il paesaggio cambia rapidamente. Anche i dati e le certezze invecchiano in fretta. Il primo monitoraggio dell’Istituto Superiore di Sanità sulla presenza della variante in Italia, che a inizio mese parlava di uno zero-virgola di casi Omicron sul totale, aveva diffuso una sensazione di tranquillità e di vantaggio rispetto ad altre zone europee. Nella nuova flash survey la presenza è stimata a quasi il 30%, un balzo di due ordini di grandezza. È per noi la prima attestazione di quanto Omicron abbia sul serio una trasmissibilità inedita in questa pandemia, come d’altronde sapevamo fin dalla sua comparsa in Africa. Il nostro vantaggio era effimero. Credo che ognuno di noi se ne sia reso conto basandosi più semplicemente sul proprio osservatorio personale .
Finalmente abbiamo gli studi
L’evidenza cosiddetta «aneddotica», anche se non può essere considerata verità, non va nemmeno ignorata: abbiamo tutti notato l’incremento dell’ultima settimana di classi in quarantena, l’aumento rapido di positivi vicino a noi. La smania competitiva di Omicron si è innestata su una crescita di casi di Delta che era già sostenuta di per sé e che aveva ormai raggiunto livelli importanti. Ma fin dall’inizio si sospettava, a nostro parziale conforto, che Omicron avesse anche una severità minore rispetto a Delta. Ovvero una tendenza attenuata a mandare la gente all’ospedale. Anche questa aneddotica, per fortuna, comincia ad avere un fondamento nei dati reali. Negli ultimi giorni sono stati presentati diversi studi che confermano la riduzione di severità, e provano a quantificarla. Bisogna tenere conto di quanto difficile sia, in una situazione stratificata come quella di oggi, riconoscere la minore severità «intrinseca» della variante, separandola dagli altri effetti che nel frattempo si sono accumulati e che tendono a sovrapporsi e confondersi: l’immunità acquisita per infezioni precedenti o attraverso il vaccino, quale vaccino e con quante dosi, la composizione anagrafica delle diverse popolazioni, i cambiamenti nelle dinamiche di comportamento. Insomma, si tratta di un’analisi tutt’altro che facile.
Lo sforzo di farsi una visione d’insieme
Per avere dei numeri in testa, con la consapevolezza che si tratta di stime suscettibili di correzione, si può leggere il report dell’Imperial College pubblicato due giorni fa, che tenta di disaccoppiare i vari effetti. Ma occorre la pazienza di decifrare con calma le tabelle. I numeri sono sempre più difficili da leggere correttamente. Anche per questo, preferisco evitarli qui. Ho l’impressione che in questo frangente possano essere più fuorvianti che di aiuto. Più importante, mi sembra, è che ognuno di noi abbia in mente una visione qualitativa della situazione circostante. Della sua complessità e delle incertezze. Perché come sempre, ma in modo ancora più lampante che in passato, la tessitura degli elementi su Omicron ha raggiunto il pubblico in una versione ipersemplificata, che suona all’incirca così: «Ci saranno tanti casi ma non saranno casi gravi» . È una reazione comprensibile. La spossatezza e l’imminenza delle feste ci portano ad abbracciare, fra le molte possibili, l’interpretazione rassicurante ancora più volentieri. E non lo fanno solo i cittadini comuni: molti esperti si sono spinti a decretare addirittura la fine agognata della pandemia «grazie a Omicron».
In questo quadro, in cui è impossibile per chiunque costruire uno scenario affidabile di come sarà la pandemia tra un mese, propongo di introdurre in ogni ragionamento la categoria del «sì, ma».
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