Non mandate nonno Draghi ai giardinetti

Il governo Draghi ha gestito bene le “politiche post-virali”, per usare la formula di Robert Guest. Ma la missione è tutt’altro che compiuta. Per questo la conferenza stampa di fine d’anno del premier è risultata vagamente distopica. A dispetto dell’esegesi postuma di Palazzo Chigi, “Nonno Mario” ha prenotato davvero un posto al Quirinale. Ha dato il fischio d’inizio della partita per il Colle, con un’auto-candidatura implicita ma evidente. Lo ha fatto con l’understatement che gli conosciamo. Ma l’ha fatto. E per farlo, ha dipinto un quadro fin troppo confortante, che mal si concilia con il record di contagi, l’aumento delle vittime e le nuove misure emergenziali appena approvate. Pur sottolineando che i suoi destini personali non contano nulla, e che tutto ciò che è stato fatto e che ancora si farà è dipeso e dipenderà dalla volontà del Parlamento, Draghi ha lanciato due messaggi chiarissimi.

Al Paese ha dato garanzie sanitarie ed economiche: il suo governo ha fatto quel che doveva, e per il quale era stato “chiamato” dal presidente della Repubblica, cioè gettare le basi per sconfiggere il Covid e per vincere la sfida del Pnrr. Al Palazzo ha dato garanzie politiche e istituzionali: la maggioranza che eleggerà il nuovo presidente della Repubblica non può essere diversa da quella che sostiene il governo di unità nazionale, e comunque finisca il “Quirinal Game” non possono esserci elezioni anticipate perché la legislatura deve arrivare alla scadenza naturale. Spiace dirlo, ma messa in questi termini la “conferenza di fine anno” ha assunto davvero i toni di una “conferenza di fine mandato”. Come dire: ho servito a Palazzo Chigi, come mi era stato chiesto. Ed ora sono pronto a servire sul Colle, se mi verrà chiesto. È legittimo, e forse anche coerente con la traiettoria istituzionale che Mattarella e Draghi avranno probabilmente condiviso all’atto di nascita di questo esecutivo. Sta di fatto che i partiti hanno tradotto le sue parole quasi come un ultimatum: se non mi volete come presidente della Repubblica, non mi avrete più come presidente del Consiglio. Interpretazioni forzate, capziose, malevole. Eppure, se stiamo ai numeri della pandemia e a quelli dell’economia, tutto si può dire fuorché il mandato si possa considerare concluso.

Torna la domanda cruciale di queste settimane e delle prossime: Draghi al governo o Draghi al Colle? Cosa è più utile non alle persone e ai partiti, ma all’Italia? Per i motivi che abbiamo detto, è vero che il premier ha un peso, un prestigio e una competenza che lo renderebbero ancora insostituibile alla guida del governo. Per ragioni interne, come abbiamo visto: il piano vaccinale da rilanciare, l’attuazione del Recovery da accelerare, la crescita da rafforzare, la fiammata inflazionistica da raffreddare. Per ragioni internazionali: come ripetono a Luigi Di Maio i colleghi ministri degli Esteri tedeschi e francesi, “la Ue ha bisogno che Draghi stia seduto ai Consigli europei, non al Quirinale”. Ma è anche vero, soprattutto dopo la sua quasi subliminale “discesa in campo”, che al momento è il candidato più credibile per il Colle. Quello che si avvicina di più al profilo del “presidente di tutti” e del vero “garante della Costituzione”, come fu Carlo Azeglio Ciampi nel 1999. Gli stessi partiti che lo hanno “freddato”, l’altro ieri, non sembrano in grado di fermarne la corsa. Intanto perché per ora non hanno candidati alternativi e autorevoli sui quali far convergere i consensi trasversali. E poi perché, in fondo, Draghi conviene anche a loro. Conviene alla destra, perché Berlusconi è invotabile, un altro presidente “di sinistra” pure, ma un presidente “terzo” come l’attuale premier non sbarrerebbe la strada a Meloni o Salvini, probabili vincitori delle prossime elezioni. Conviene alla sinistra, perché ha tanti auto-candidati che riempirebbero l’elenco telefonico ma non ha i voti per imporne uno suo, e dunque tanto vale mettere il cappello sul “migliore” in campo, anche se è un ex banchiere centrale.

A gennaio tutto sarà più chiaro. Restano solo una variabile e una speranza. La variabile è la variante: se Omicron non si piega, sarà difficile immaginare uno scenario politico diverso dall’attuale. La speranza è questa: a Palazzo Chigi o al Quirinale, purché si salvi il soldato Draghi. “Nonno Mario” ai giardinetti sarebbe l’ultima autodafè di un Paese anormale.

LA STAMPA

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