Draghi non fa più Draghi e subisce la mediazione
Secondo l’antico adagio che “piuttosto che niente” è meglio “piuttosto”, le norme varate con grande fatica dal consiglio dei ministri sono comunque un passo in avanti nella direzione di restringere il campo dei non vaccinati, complicando non poco la vita, gli spazi di socialità e di benessere per chi il vaccino non ce l’ha. E per la prima volta viene sdoganato l’obbligo: varca la soglia dei luoghi del lavoro, sia pur per gli “over 50”, misura tutt’altro che indolore anche a livello simbolico, ma per questa fascia d’età vale anche in assoluto. Insomma, nel confronto con gli altri paesi europei la legislazione italiana resta tra le più severe e rigorose. Però, al tempo stesso, rappresentano un passo indietro rispetto alle intenzioni di Mario Draghi che, solo una settimana fa di fronte al cedimento verso una parte della sua maggioranza, aveva manifestato la ferma intenzione di estendere il Super Green pass all’intero mondo del lavoro, senza distinzioni tra pubblico e privato, under e over.
In spiffero, veritas. “Non è un compromesso politico” viene fatto filtrare alle agenzie da palazzo Chigi nel pomeriggio. Parole che suonano come la classica excusatio non petita, in cui c’è l’essenza dell’accaduto, in un pomeriggio segnato da classico tira e molla da litigioso governo di coalizione, tra una cabina di regia slittata al primo pomeriggio e un consiglio dei ministri protrattosi quasi al limite della famosa “ora Conte”. Quella del favor delle tenebre e del disordine istituzionale. E cioè un compromesso tra chi chiedeva l’obbligo per tutti (il Pd), chi per nessuno (i Cinque stelle), chi per gli over 40 (Brunetta), chi per gli over 60 (la Lega). Che, davanti alla minaccia di non votare il provvedimento, riesce pure a far togliere la norma che rende obbligatorio il super Green pass per chi deve andare in banca o alle poste, all’estetista o al parrucchiere o al centro commerciale.
Peraltro il terzo di compromesso in tre settimane: dopo il decreto di Natale sugli autobus e quello di Capodanno col rompicapo sulle quarantene, arriva la “strettina della Befana”, proprio mentre il grosso del mondo scientifico invoca l’obbligo e nelle ultime quarantotto ore si è registrato il picco di 400 morti, un numero di contagi come non se ne registrava da aprile, una crescente apprensione per la confusione sui tamponi e terze dosi.
Si procede dunque, di settimana in settimana, con una parcellizzazione normativa di regole e regolette cui è complicato stare dietro, che rischiano di produrre incomprensione anche nella maggioranza vaccinata e disciplinata, di indispettire le minoranze già riottose, rafforzandone il pregiudizio, e anche di introdurre elementi di frantumazione nell’ambito del vasto popolo che ha seguito le scelte del governo, tra chi ha 49 anni e chi 51, soggetti a norme diverse pur condividendo la stessa scrivania. Magari in questo step è già incorporato, quantomeno nelle intenzioni, il prossimo, che abbassa la soglia dell’obbligo a trenta, quaranta, o quarantacinque anni, ma la domanda nasce spontanea: se prima o poi lì si deve arrivare, ovvero all’estensione erga omnes, perché farlo poi e non prima, secondo la logica di una limpida assunzione di responsabilità?
Per la risposta non ci vuole Cassandra o chissà quale sapienza politologica: perché costa, politicamente. Un prezzo caro quanto il Quirinale. Draghi dell’inizio, sceso in terra a miracol mostrare, con la forza della sua autorevole terzietà, che è un tutt’uno con una visione autonoma dell’interessa nazionale, aveva nei primi mesi domato, con piglio e carattere, financo i leghisti restii a mascherine e vaccini, che andavano in piazza contro il Green Pass e che volevano riaprire tutto e subito. Draghi che sostanzialmente si è candidato al Colle sembra subire il ritorno della politica perché è diventato parte in causa del Great Game quirinalizio. Si fa concavo e convesso, e accetta la “politicizzazione” della pandemia, intesa come dominio della mediazione politica.
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