Il destino (vero) del Paese: salvate il Pnrr
La governance del Pnrr è strettamente legata all’efficienza amministrativa. Molti dei 51 obiettivi già conseguiti ne sono la diretta conseguenza. Ma molto dipende anche dalla credibilità personale in Europa del premier e, di conseguenza, del suo governo. E dall’approvazione di alcune riforme indispensabili per l’erogazione regolare dei fondi (esempio la disciplina della concorrenza e il codice degli appalti). È vero che il governo ha creato una struttura per la governance del Pnrr protetta da qualsiasi tentazione di spoils system. Un nuovo esecutivo non potrebbe cambiarne la composizione solo per ragioni politiche. Ma è altrettanto vero che sarà necessario, per assicurare la realizzazione dei progetti, fare ricorso ai «poteri sostitutivi», cioè commissariare se necessario gli enti attuatori, Regioni e Comuni. E questo lo potrà fare solo un esecutivo autorevole, in grado di andare contro logiche crescenti di puro consenso territoriale e la resistenza della burocrazia, direttamente proporzionale alla debolezza governativa.
Nel frattempo, si moltiplicano le richieste di modifiche significative da parte delle Regioni. Il presidente della Sicilia, Nello Musumeci, ha già messo le mani avanti sull’incapacità della Regioni di rispettare programmi e tempi. Il suo collega presidente della Calabria, Roberto Occhiuto, ha scritto al presidente del Consiglio chiedendo la revisione dei criteri stabiliti nel Pnrr per le opere strategiche. Nel 2022 sarà possibile per ogni Paese beneficiario — ed è questo un aspetto finora trascurato dell’intera architettura del Next Generation Eu — correggere il tiro su alcuni progetti del Piano, cioè apportare integrazioni migliorative. Lo si potrà fare in una logica di grande responsabilità nazionale, con più attenzione al ritorno futuro degli investimenti. Oppure con uno sguardo più rivolto ai vantaggi immediati, alle aspettative delle varie corporazioni, e ovviamente alle ormai vicine elezioni. Un po’ com’è avvenuto con la legge di Bilancio di quest’anno che Draghi, in veste di governatore della Banca d’Italia o di presidente della Bce, avrebbe certamente trovato motivo e occasione per criticare.
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