Un Parlamento staccato dalla realtà genera l’inaccettabile stato d’emergenza
Massimo Cacciari
L’elezione di un Presidente della Repubblica dovrebbe rappresentare una buona occasione per discutere sullo stato di salute della nostra democrazia, per ritornare a discuterne dopo tanti penosi fallimenti, con diagnosi e terapie che magari non avranno la fondatezza scientifica di cui in altri campi si possono vantare, ma qualche ragionevolezza magari sì. Di fronte al fatterello che un Parlamento non riesce ormai da oltre dieci anni a esprimere un premier che non venga de facto nominato dal Presidente della Repubblica è ancora possibile ripetere il mantra: «Signori, pazienza, tutto regolare, è il parlamentarismo, che volete»? Come quei disincantati uomini di mondo che davanti agli aspetti più odiosi di sfruttamento e ingiustizia che il villaggio globale presenta, alle nuove forme di controllo e dominio esercitate dal sistema economico-finanziario, ci ricordano che «è il capitalismo, bambini – non avete letto Karl Marx?».
Napolitano, in un memorabile discorso subito dimenticato, avvisò il Parlamento che eravamo giunti ai supplementari, che la sua impotenza a decidere avrebbe condotto per forza, senza una reazione profonda e consapevole, a un mutamento sostanziale delle forme di governo. Non solo nessuna reazione è avvenuta, ma le crisi successive hanno non spogliato, scorticato il Re.
Nessuna emergenza, che non sia forse una guerra-guerra, può giustificare lo stato di un Parlamento che non discute davvero neppure nel momento della conversione in legge dei decreti del Consiglio dei ministri. Credo che il futuro Presidente dovrà riprendere i moniti di Napolitano, chiedendosi tuttavia quali siano le cause storiche di una crisi tanto radicale. Io penso che esse stiano essenzialmente nello sfascio delle forme autonome di organizzazione della società civile, dei suoi corpi intermedi. Questi non sono riusciti a comprendere la grande trasformazione avvenuta a partire dalla fine della «guerra fredda» e a rappresentare le nuove faglie nel corpo sociale, le contraddizioni e i soggetti nuovi che ne emergevano. Una massa di individui non può partecipare realmente alla res publica, ai processi decisionali che la interessano. Una massa di individui può delegare e basta. Al Parlamento è finito con l’andare qualcuno di questa massa, e il Parlamento ha cessato di essere la scena di un confronto tra strategie e anche, perché no, visioni del mondo, confronto da cui soltanto possono nascere vere élite politiche. Mucchi di interessi particolari si rovesciano, senza mediazione, nel lavoro parlamentare – e la situazione può reggersi fino a quando non si presentano drammatiche emergenze, terrorismo una volta, crisi finanziaria un’altra, pandemia-endemia ora, e chissà cosa domani.
Allora l’impotenza si fa palese, interviene il Presidente, il Presidente cerca l’uomo forte, l’uomo forte decide, il Parlamento converte. Come può un Parlamento legiferare senza che le sue parti siano radicate nelle parti della società? Se manca questa relazione risulta inevitabile, e salutare a volte, la concentrazione del potere nell’Esecutivo.
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