La quarta dose di vaccino può essere utile? Come e quando va somministrata?

di Adriana Bazzi

Paesi come Israele e Cile hanno cominciato a iniettarla. Ma ci sono ancora dubbi sull’opportunità (e fattibilità), come spiega l’immunologo Clerici

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Quarta dose di vaccino anti-Sars-Cov2: sì o no? Perché sì e perché no? E perché i preparati, fabbricati per combattere questo virus, si comportano diversamente, rispetto alle decine dei loro cugini-vaccini, che da decenni combattono, con successo, gravi malattie infettive, e perdono rapidamente la loro efficacia?

Giriamo queste domande a Mario Clerici, immunologo, professore all’Università di Milano e alla Fondazione Don Gnocchi.

Professore, alcuni Paesi, come Israele e Cile, stanno proponendo la quarta dose, soprattutto ai pazienti fragili. È utile?
«La quarta dose non ha molto senso, al momento. Le tre dosi sono sufficienti per contrastare la malattia grave. E anche nei casi di infezione da variante Omicron nei tri-vaccinati, la carica virale (cioè la presenza del virus nella persona infetta, ndr) è molto ridotta, come pure la capacità di trasmettere la malattia ( qui il caso dell’Ungheria che disubbidisce all’Ema) ».

A parte l’utilità in termini di prevenzione, ci sarebbero anche problemi organizzativi nel distribuire la quarta dose?
«Certo, come ha fatto notare sia l’Oms, l’Organizzazione Mondiale della Sanità, sia l’Ema, l’Agenzia Europea del farmaco: non si può pensare di vaccinare la popolazione ogni quattro o cinque mesi».

C’è anche un problema clinico. La ripetuta somministrazione di richiami vaccinali potrebbe indebolire le difese immunitarie? Alcuni esperti la chiamano «exhaustion», lo sfinimento del sistema immunitario, che diventa, alla fine, incapace di rispondere al virus.
«È un fenomeno che si è osservato fin dagli anni Settanta negli animali da esperimento. Se si espone un organismo ad alte dosi di un antigene virale (presente in un vaccino, ndr) in successione, si crea uno stato di «tolleranza». In altre parole: certe cellule immunitarie (chiamate beta) non producono più anticorpi: quelli che si misurano nel sangue e che sono una prima barriera al virus. Rimane, però, efficace la cosiddetta risposta cellulare (più sofisticata: quella dei linfociti T, un’altra categoria di cellule del sistema di difesa che, comunque, protegge dall’infezione, ndr)».

Di fronte alle trasformazioni del virus ha più senso inseguirlo con nuovi vaccini che si adattano alle varianti, o pensare a un preparato universale, come auspica l’esperto americano, consulente del governo Usa, Anthony Fauci?
«Inseguire il virus nelle sue trasformazioni appare una strada piuttosto difficile, anche se i preparati a Rna sono molto versatili e possono adattarsi ai suoi cambiamenti. Teoricamente sarebbe più interessante un vaccino universale, ma occorre capire che cosa metterci dentro per stimolare una risposta efficace dell’organismo contro il virus e i suoi mutanti. Cioè capire contro che cosa indirizzare le difese dell’organismo. È interessante osservare che chi è guarito da un’infezione da Coronavirus ha una protezione più ampia nei confronti di una reinfezione, perché ha «riconosciuto» il virus nella sua totalità e non solo in certe sue parti, come quelle presenti nel vaccino».

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