L’Italia invecchia: serve una nuova mappa della vita

In verità abbiamo deciso, senza dircelo, che non abbiamo la volontà politica di fare dell’Italia un Paese per giovani. L’approccio alle migrazioni appena più aperto di uno o due decenni fa oggi sembra un’eresia. Di spostare risorse verso il welfare familiare non se parla, che sia dalle pensioni o da altre assurdità nascoste nel sistema fiscale. Di dare più spazio e potere ai giovani nelle aziende neanche si parla, tanto che loro vanno all’estero a prendersi quello spazio partendo soprattutto dalle provincie italiane più ricche.

Smettiamo dunque di parlare di come l’Italia dovrebbe essere in teoria, dato che non abbiamo l’altruismo per farla diventare come diciamo di volere. Iniziamo a pensare a come può funzionare l’Italia com’è. Cioè, nel tempo delle nostre vite, uno dei Paesi più vecchi della Terra. E se ciò di cui abbiamo bisogno è una nuova mappa della vita, un manuale di sopravvivenza — produttiva, finanziaria, culturale e di un minimo di coesione — ecco allora alcuni consigli.

Uno. Smettiamo di chiamare «anziani» le signore e i signori fino ai 75 anni di età. Facciamo come raccomanda l’Istituto di Gerontologia dell’Università di Tokyo (lì se ne intendono) e chiamiamoli «pre-anziani». Quel «pre» segnala al resto del mondo che non devono essere necessariamente inattivi, non devono essere fatti sentire un peso per la società. Ci sono molte attività che si possono pensare per loro: lavori ritagliati per una «seconda vita», per chi vuole; ma anche più attività di quartiere, impegno nella società, più educazione da dare o da ricevere. In una parola, più dignità.

Due. Nel contratto di governo di un altro Paese anziano come la Germania c’è il voto ai sedicenni e coloro che oggi si oppongono sembrano lungimiranti (a chi scrive) come chi nel ’900 si opponeva al voto femminile. Se i sedicenni non paiono maturi per votare, bisognerebbe spiegare loro in modo convincente che tutti gli adulti di mezza età — la nostra generazione — invece lo sono. O magari bisognerebbe prendersi più responsabilità nell’impedire che videogame e social disarticolino definitivamente la capacità di ragionare degli adolescenti.

Tre. Daron Acemoglu e Pascual Restrepo sono due rari economisti che hanno studiato a fondo le conseguenze dell’invecchiamento. In «Demographics and Automation» mostrano che i Paesi dove esso è più avanzato fanno più ricorso alla robotica, per sostenere i ritmi produttivi in industrie fondate su lavoratori di mezza età. Lo fanno la Corea del Sud, la Germania, il Giappone. Lo fa molto meno l’Italia, dove il lento aumento annuale dei robot in fabbrica è una delle poche caratteristiche condivise con Paesi dal profilo demografico più dinamico. Anche in questo possiamo migliorare.

Massimo Livi Bacci, creativo come sempre a 85 anni, è lo studioso che più in Italia ha riflettuto a questi temi e ha molte idee sul disegno delle città e delle case per la «nuova» popolazione. Non possiamo smettere di pensarci. Nello scenario centrale dell’Istat l’Italia perde undici milioni di persone in età di lavoro nei prossimi 40 anni e 40 anni sono l’orizzonte di vita attiva dei nostri figli. Una riduzione di manodopera quasi paragonabile avvenne in Europa nel quattordicesimo secolo, con la peste, ma proprio quel cambio gettò le basi della rivoluzione borghese dando più potere ai pochi lavoratori rimasti. Anche il cambiamento di questo secolo, di cui faremmo volentieri a meno, può gettare le basi per qualcosa di nuovo: più rispetto della conoscenza per sostenere la tecnologia che ci serve, più apertura verso chi è diverso da noi, più rispetto del lavoro femminile che dovrà crescere. Ma lo stiamo capendo?

CORRIERE.IT

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