Un italiano su quattro vive sulla soglia della povertà: ecco le cinque mosse del governo per affrontare la crisi

Anche perché, secondo l’indicatore prodotto da Eurostat, l’ufficio europeo di statistica e adottato dall’Unione europea, «in Italia il fenomeno della povertà lavorativa è più marcato rispetto agli altri Stati europei: nel 2019 l’11,8% dei lavoratori italiani era povero, contro una media europea del 9,2%». Dato che probabilmente è stato ulteriormente peggiorato dalla pandemia – puntualizza il gruppo – esponendo «a più alti rischi di disoccupazione chi aveva contratti atipici e riducendo il reddito disponibile di chi ha avuto accesso agli ammortizzatori sociali e alle misure emergenziali introdotte per far fronte alle conseguenze della recessione».

La definizione di lavoratore povero non è affatto univoca – precisa poi il Gruppo – e, al di là delle questioni meramente statistiche, questo ha conseguenze anche per il tipo di politiche da mettere in campo per contrastare il fenomeno. Secondo l’indicatore adottato dall’Unione Europea, «un individuo è considerato in-work poor (Iwp) se dichiara di essere stato occupato per un certo numero di mesi (solitamente sette) nell’anno di riferimento e se vive in un nucleo familiare che gode di un reddito equivalente disponibile inferiore alla soglia di povertà stabilita, solitamente il 60% del reddito mediano nazionale». Il concetto di Iwp comprende quindi una dimensione individuale, connessa all’occupazione del singolo e a caratteristiche quali la stabilità occupazionale e salario del lavoro svolto, ed una seconda, connessa alla struttura demografica e alla composizione occupazionale del nucleo familiare stesso. Per questo «è necessario aver chiara la distinzione fra in-work poverty e low-pay worker, cioè occupato a bassa retribuzione: nonostante possano sembrare strettamente collegati, i due concetti sono analiticamente diversi e la bassa retribuzione individuale è solo una delle possibili cause della povertà lavorativa».

Le 5 proposte in sintesi

  1. Garantire minimi salariali adeguati: Le ipotesi in discussione da tempo sono due, ma si scontrano con ostacoli politici e tecnici. La prima prevede l’estensione dei contratti collettivi principali a tutti i lavoratori, la seconda un salario minimo da introdurre per legge. Il gruppo di lavoro del ministero ne prevede quindi una terza opzione che consenta una sperimentazione di un salario minimo per legge o di griglie salariali basate sui contratti collettivi in un
    numero limitato di settori. 
  2. Rafforzare la vigilanza documentale: Una volta fissato un minimo salariale per via contrattuale o legale, è essenziale che questo sia rispettato, da qui la necessità di potenziare l’azione di vigilanza documentale, basata sui dati che le imprese e i lavoratori comunicano alle amministrazioni pubbliche.
  3. Introdurre un in-work benefit: In Italia, solo il 50% dei lavoratori poveri percepisce una qualche prestazione di sostegno al reddito rispetto al 65% in media europea. In particolare – sottolinea il gruppo di lavoro –  in Italia manca uno strumento per integrare i redditi dei lavoratori poveri, un in-work benefit (letteralmente trasferimento a chi lavora), che permetterebbe di aiutare chi si trova in situazione di difficoltà economica e incentiverebbe il lavoro regolare. Questo tipo di provvedimento dovrebbe assorbire gli “80 euro” (ora Bonus dipendenti) e la
    disoccupazione parziale per arrivare a uno strumento unico. 
  4. Incentivare il rispetto delle norme da parte delle aziende e aumentare la consapevolezza di lavoratori e imprese: in questo punto ricadono tutte le iniziative per incentivare le imprese a pagare salari adeguati, e – sul fronte dei lavoratori – per mettere in moto campagne informative sui contratti di lavoro, sulle prospettive pensionistiche.
  5. Promuovere una revisione dell’indicatore UE di povertà lavorativa: L’indicatore di povertà lavorativa utilizzato dall’Unione europea esclude i lavoratori con meno di sette mesi di lavoro durante l’anno e presuppone un’equa condivisione delle risorse all’interno della famiglia. Vengono quindi esclusi i lavoratori probabilmente più esposti al rischio di povertà.

LA STAMPA

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