Concorsi e università, perché non viene premiato il merito
Il periodo di transizione
Il sistema avrebbe dovuto essere cambiato dalla legge 230 del 2005, voluta dal ministro Letizia Moratti. La novità consisteva nell’introduzione di un’abilitazione scientifica nazionale, dove i candidati sarebbero stati valutati per titoli da una super-commissione nazionale dopo aver scremato i curricula, al fine di assicurare un buon livello di partenza. Ma la normativa non è mai stata attuata. Per evitare il blocco dei concorsi, arriva il decreto legislativo 180 del 2008 che introduce una disciplina transitoria: i candidati al ruolo di professore di I e II fascia devono essere valutati da un ordinario nominato dalla facoltà che richiede il bando e da altri quattro sorteggiati in una lista di commissari eletti tra i professori ordinari appartenenti allo stesso settore scientifico-disciplinare del bando. Si torna, dunque, a estrarre a sorte i commissari, ma il risultato non cambia.
La riforma Gelmini
Con la legge Gelmini 240 del 30 dicembre 2010, in base alla quale sono nominati 8.599 prof, viene ripresa di fatto la struttura della legge Moratti mai applicata. Il candidato prima deve superare l’abilitazione nazionale per titoli, valutato da una commissione di cinque super-commissari estratti a sorte. Gli abilitati fanno poi il concorso indetto dalle università. I commissari scendono a tre sorteggiati fra cinque, ma vengono indicati dalla stessa università. Nessuno vieta all’ateneo di metterci il professore interno che può, quindi, trovarsi a valutare il suo stesso allievo, quello attorno al quale magari è stato costruito il bando. Il motivo per il quale tutto questo è possibile lo spiega bene l’Anac: «Le disposizioni legislative – scrive l’Anticorruzione nel documento 1208 del 22 novembre 2017 – non disciplinano né le regole di formazione delle commissioni né lo svolgimento dei loro lavori, rinviando ai regolamenti universitari».
Nessun conflitto di interesse
Per il Consiglio di Stato «l’esistenza di rapporti accademici o di ufficio, ossia di una collaborazione tra il commissario e il candidato, non inficia il principio di imparzialità» (sentenza 4858 del 2012). Vuol dire che all’interno della commissione giudicatrice possono esserci rapporti personali tra valutatore e valutato, a meno che tra maestro e allievo ci sia «reciprocità d’interessi di carattere economico» (Consiglio di Stato, 4015 del 2013). In pratica, dunque, dopo l’abilitazione scientifica l’ateneo ha pressocché mano libera su tutto. Del resto, un caso-studio della Fondazione Bruno Kessler ha già dimostrato che il sorteggio dei commissari serve a poco, tant’è che ai concorsi con i membri estratti a sorte partecipa l’83% di candidati esterni contro il 76% di quando il sorteggio non c’era, ma una volta su due vince sempre e comunque l’interno. E per l’università è anche conveniente perché gli costa solo il 30% di retribuzione in più per il passaggio di ruolo, invece di pagare per interno un altro stipendio.
Cosa fanno all’estero
In Germania il concorso è pubblico, ma per avanzare di carriera non è possibile candidarsi nel proprio ateneo. Nel Regno Unito non ci sono concorsi pubblici e la promozione di solito avviene passando a un’università diversa dalla propria in base alla produzione scientifica. Negli Usa il capo della commissione che deve scegliere il candidato è il direttore del Dipartimento e, se non sceglie uno bravo e in grado di produrre risultati, viene penalizzato nei finanziamenti.
Invece in Italia la commissione del concorso non risponde in alcun modo sulle future performance del vincitore. Il nostro meccanismo di premialità lega solo il 20% dei finanziamenti che arrivano agli atenei alle politiche di reclutamento e alla qualità della ricerca. In sostanza, abbiamo messo in piedi una trafila che non garantisce la scelta migliore e di cui nessuno risponde. Un sistema più meritocratico potrebbe, per esempio, lasciare libere le università di scegliersi i docenti che preferiscono, con la condizione di rispondere dei risultati prodotti pena una corposa riduzione dei fondi. È un linguaggio facile da capire al volo, proprio perché ha un effetto pratico… molto più dell’indignazione che esplode per ogni concorso truccato, senza aver mai cambiato una virgola. dataroom@rcs.it
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