Draghi in campo, ora tratta con i leader ma frena sul rimpasto: “Non resto a ogni costo”
Ilario Lombardo
«Siete voi partiti a dovermi dire cosa volete che io faccia». La sintesi apparirà anche brutale, ma il senso di quello che Mario Draghi ha detto a Matteo Salvini, e che il leghista ha riportato ai parlamentari più fidati, è contenuto in questa frase. Siano le forze politiche a dire cosa hanno in mente per lui ma, aggiunge, al governo non resterà a ogni costo: «Lo farò se avrò la possibilità di lavorare per raggiungere gli obiettivi prefissati». È il Draghi del whatever it takes, descritto così dalle fonti di Palazzo Chigi: deciso a fare qualunque cosa per realizzare le riforme previste, se dovesse essere costretto a rinunciare al Colle. Lo farebbe senza più usare il bilancino tra i partiti, come invece ha fatto in questi mesi, per le pensioni, per il fisco, per la concorrenza. È ovvio che il presidente del Consiglio non sta semplicemente mettendo il proprio destino nelle mani dei partiti, ma sta sfruttando le regole del gioco costituzionale sapendo di avere lui la responsabilità di liberare se stesso da una condizione del tutto inedita e paradossale. Un premier in carica che diventa il principale candidato a diventare presidente della Repubblica – già solo questa unanovità – nonostante i partiti pubblicamente lo scoraggino.
Attorno a lui dicevano che non lo avrebbe fatto, e invece lo ha fatto: Draghi si è seduto a trattare con i partiti. In prima persona. Senza più sherpa, delegati, collaboratori, ministri amici: è stato direttamente lui a incontrare Salvini, a sentire al telefono il segretario del Pd Enrico Letta e il presidente del M5S Giuseppe Conte.
Il dialogo con il leghista inevitabilmente diventa il più significativo perché fissa la cornice della trattativa. Draghi pone i suoi paletti. Salvini alza il sipario sui desideri suoi e della Lega. Ribadisce di temere «l’apertura di una crisi al buio» e invita il premier a riflettere sul «rischio altissimo» di «elezioni anticipate». In realtà il capo del Carroccio ha un obiettivo preciso. Parlare di governo, dei ritocchi da fare alla squadra. Arriva con due richieste: cambiare i ministri tecnici, a partire dalle Infrastrutture e dall’Interno. I leghisti vogliono licenziare Enrico Giovannini e Luciana Lamorgese. Sono due posti considerati strategici. Il primo, perché è luogo di spesa per eccellenza, dove nei prossimi mesi arriveranno altri soldi del piano nazionale di ripresa. Il secondo, perché Salvini lo considera casa sua. Vorrebbe rientrarci lui al Viminale, ma sa che, a un anno dal voto, il Pd non gli lascerebbe mai più trasformare il ministero dell’Interno in una piattaforma elettorale, anche se dovesse indicare una figura d’area come il prefetto Matteo Piantedosi, suo ex capo di gabinetto.
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