False partenze e interessi del Paese
I mille e passa grandi elettori tanto «grandi» non sono sembrati, visto che si limitano a sfilare davanti all’urna senza votare: non hanno l’aria di aver capito che cosa il Paese si aspetta dalle sue istituzioni
Dopo le bianche, le rose. Anzi, la rosa, visto che il centrosinistra non ha voluto giocare la sua. Con tutto il rispetto per il valore dei nomi che le compongono, si vede che le rose servono solo a preservare chi non vi è stato inserito. Ma intanto certificano il singolare ritardo con cui, a partita già cominciata, si comunica la formazione. Rosa contro rosa sarebbe stata una variabile del muro contro muro, solo più gentile, come dimostra il «fair play» con cui Letta e Conte hanno accolto quella presentata da Salvini e Meloni. Nel frattempo, però, ieri è stata di nuovo la fiera della scheda bianca, un’esplicita ammissione di debolezza delle forze politiche, che non hanno neanche l’ardire di sostenere a viso aperto un candidato di bandiera, nella paura che venga impallinato anche quello. Vedremo se oggi almeno il centrodestra si misurerà finalmente col voto segreto, per capire quanto vale in termini numerici. Certo è che finora i mille e passa grandi elettori tanto «grandi» non sono sembrati, visto che si limitano a sfilare davanti all’urna senza votare : non hanno l’aria di aver capito che cosa il Paese si aspetta dalle sue istituzioni. Sfogliano pigramente la margherita mentre i capi trattano febbrilmente su qualcosa che resta sostanzialmente oscuro agli italiani. Stanno cercando un capo dello Stato di tutti? Oppure stanno tentando di eleggerne uno di parte a scapito dell’altra? Oppure ancora stanno già pensando alla formazione di un nuovo governo dopo l’elezione del presidente, per stabilire in anticipo chi lo guiderà e da chi sarà composto?
Emblematico di questa ambiguità è il loro rapporto con Draghi. Di che discutono con lui nei vari incontri? In tv ricorre la locuzione «hanno chiesto garanzie». Su che? La materia del futuro governo è per definizione indisponibile per il premier in carica. Se il suo esecutivo cadesse, per una ragione o per un’altra, toccherebbe alle forze parlamentari indicare al nuovo capo dello Stato il nome del successore a Palazzo Chigi e la composizione di una compagine governativa che abbia la maggioranza per portare a termine la legislatura. Almeno finché siamo in quella Repubblica parlamentare che i partiti stessi dicono di voler difendere contro ogni tentazione presidenzialista o semi. Ieri la Lega ha ufficialmente smentito che nell’incontro di Salvini con Draghi di questo si sia trattato. Speriamo che non sia solo una precisazione, ma anche un impegno. Draghi non può dire ciò che non può dire; e per indole è portato a non dire anche quello che potrebbe dire. Ci si lamenta che risponda sempre con un «mettetevi d’accordo tra di voi». Ma in realtà è proprio ciò che dovrebbe accadere e non sta accadendo: le forze politiche non riescono a mettersi d’accordo, e non solo tra centrodestra e centrosinistra, qualsiasi cosa questi termini oggi significhino; ma nemmeno tra alleati, e nemmeno all’interno degli stessi partiti. Se questo stato di cose si protrarrà e porterà alla rottura della maggioranza che oggi regge il governo, non solo ne verrà fuori un capo dello Stato eletto solo da una parte, ma anche una crisi di governo e il rischio di elezioni anticipate, con tutte le conseguenze che ciò comporta per la gestione dell’emergenza sanitaria e della ripresa economica. Tutto il contrario di quello che si aspetta un Paese che ha fatto grandi sacrifici in questi due anni, con forte senso di responsabilità e del dovere civico, e che ora merita di essere ripagato della stessa moneta per non mettere a repentaglio i successi ottenuti.
Si dirà: ma è normale che al secondo scrutinio si sia ancora in stallo. È vero. C’è ancora tempo. Ma non tanto. Dalla quarta votazione, prevista per domani, non si potrà più fare melina. E se ci si arriva per tentare la «soluzione riffa», e cioè un’elezione a stretta maggioranza in un Parlamento disossato e scarnificato dalla crisi dei partiti e delle vocazioni, allora si può entrare davvero in un tunnel pericoloso. In tutta la seconda Repubblica non si sono mai superate le Colonne d’Ercole della sesta votazione.
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