Quirinale, il grande sfascio di Montecitorio e il gioco al massacro dei leader

Annalisa Cuzzocrea

A dimostrazione che tutto è ancora teatro, mentre Enrico Letta sta parlando ai cronisti – davanti al corridoio sospeso che collega i due palazzi della Camera – passa Giorgia Meloni e lui scandisce forte: «Quelli di centrodestra sono nomi sicuramente di qualità e li valuteremo senza spirito pregiudiziale». La leader di Fratelli d’Italia risponde mimando un applauso: «Bravo, bravo!». E insomma, si è fermi alla commedia. Perché il segretario pd sa che i nomi entrati nella terna sono quelli da bruciare, come lo sa chi li ha proposti. E perché la sua mossa serve a sminare quella che per ripicca hanno fatto gli alleati 5 stelle: «Nessuna pregiudiziale sui nomi di centrodestra», hanno detto Paola Taverna e Giuseppe Conte ancor prima di ascoltarli, ancor prima di consultarsi. Perché «se il Pd non ci segue quando abbiamo un problema, come quello con il premier – spiega un dirigente grillino – allora perché dovremmo seguirlo noi? Abbiamo detto che Draghi deve restare al governo, Letta non può continuare a lavorare per lui come se nulla fosse».

C’è un pericolo, quando i bambini giocano a moscacieca. Che qualcuno perda davvero l’orientamento e finisca per farsi male. In questo caso, a essere bendato è l’intero Parlamento. O meglio, tutti e 1009 i grandi elettori (forse, ma solo forse, esclusi i leader) che non stanno capendo nulla del gioco di rimbalzi tra destra e sinistra e non a caso invocano sempre più forte, seppur nei capannelli a bassa voce, il ritorno di Sergio Mattarella. Non solo da Palermo.

Alcuni 5 stelle fanno sapere che sono stati loro a votarlo, contraddicendo l’indicazione della scheda bianca, per dare un segnale. Ci sono parlamentari pd pronti a un appello. Letta, Conte, Speranza, Salvini, Tajani, Meloni pretendono sia tutto sotto controllo, ma così non è. La paura dello sfascio, ieri, era palpabile: soprattutto quando si è visto che nella terna del centrodestra non sono entrati né Maria Elisabetta Casellati né Franco Frattini (già silurato al mattino da un inedito asse Letta-Renzi, preoccupati da presunte posizioni filorusse nel momento della crisi in Ucraina). C’è stato, a un certo punto, il timore della spallata. Perché Salvini e Meloni non dovrebbero provare davvero a eleggere una presidente di centrodestra come Casellati, magari aiutati da Italia Viva e da un drappello di 5 stelle preoccupati dal voto (e inconsapevoli del fatto che sarebbe a quel punto che il governo cadrebbe di certo)? Gli avvicinamenti ai peones M5S, da parte dei leghisti, ci sono già stati. E anche se ai leader sentiti ancora al telefono Salvini avrebbe fatto capire che non è lì che vuole davvero arrivare, entra in gioco la seconda domanda: davvero Letta e Conte possono fidarsi del segretario della Lega? Che ancora ieri criticava l’operato del ministero dell’Interno e chiedeva apertamente quanto meno un rimpasto di governo?

«La partita ora è tra Draghi e Salvini», dice un ministro che – tra i pochi – crede ancora al trasferimento del presidente del Consiglio al Quirinale. Con un ragionamento contorto: Draghi avrebbe chiarito nel primo colloquio avuto in questi giorni con il segretario leghista che le caselle che andrebbero al suo partito in caso si cambiasse governo sarebbero sempre le stesse. Adesso potrebbe aprire, non dargli gli Interni (il Pd non potrebbe accettare), ma aprire. Favorendo il distacco della Lega da Fratelli d’Italia.

Ipotesi di scuola perché, appunto, sono quasi tutti bendati. A questo portano i colloqui separati: a versioni dei fatti diverse e contrapposte che forse solo il vertice tra tutti i leader di oggi potrebbe superare (supposto si faccia davvero). A timori incontrollati che prendono le vie dei messaggi whatsApp nelle chat dem o in quelle grilline: «Lavorano su Casellati per fare Zanda presidente del Senato e spaccarci!». Oppure: «No, alla guida di Palazzo Madama andrebbe Renzi, emigriamo!». Quel che è certo è che dopo la riunione del pomeriggio tra Conte, Letta, Speranza e i rispettivi capigruppo, il presidente M5S e il capodelegazione al governo Patuanelli sono usciti dicendo a chiunque li fermasse: «Draghi non c’è più. La sua candidatura è saltata e questa è una nostra vittoria, così come lo è aver rimosso l’ostacolo Berlusconi».

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