Quirinale, l’ultima trattativa: Salvini e Meloni rischiano di rompere, mentre Letta e Renzi si sfidano

«Sto trattando io con Salvini», rivela Conte ai fedelissimi prima di infilarsi nella riunione degli eletti M5S a largo dello scoutismo, a Roma. «Io e Letta abbiamo deciso che con Matteo parlo io. Ed è stato lui ad assicurarmi che manterrà fino in fondo il veto su Draghi. A questo punto, abbiamo ottenuto quello che chiedevamo fin dall’inizio». Il seguito del ragionamento è: «Non possiamo dire di no a tutto». È per questo che dopo aver continuato a bocciare il nome di Giuliano Amato, l’avvocato non può fare lo stesso con Pier Ferdinando Casini. E che quando scappa un’agenzia – soffiata probabilmente dall’area vicina a Luigi Di Maio – secondo cui fonti M5S annuncerebbero l’uscita dal governo se ci fosse un accordo su Casini, Conte la fa subito smentire. «La verità – dice uno dei dirigenti M5S – è che su Casini stiamo frenando un po’ per puntare a qualcosa di meglio, ma per noi la tragedia vera sarebbe Draghi al Colle. Casini ha un profilo parlamentare, rispetto della politica e delle istituzioni. Draghi è bravissimo, ma non condivide niente con nessuno, decide tutto lui, solo lui. Se si fosse comportato in modo diverso avrebbe avuto la strada spianata, ma ormai è tardi». È talmente vero, almeno sul fronte M5S, che neanche la telefonata di Beppe Grillo a Conte cambia le cose. Il fondatore dei 5 stelle sente spesso Draghi, ma è convinto debba restare al suo posto. Di più, è convinto che nessuna casella del governo vada toccata, a partire da quella di Roberto Cingolani al Ministero della Transizione ecologica. Stavolta l’asse Di Maio-Fico-Grillo contro quello formato da Conte e dai suoi più fedeli collaboratori non si è formato. Il presidente della Camera resta neutrale, il Garante è distratto da mille problemi e chiama addirittura Enrico Mentana in tv per sventare ogni sospetto.

Così, la giornata cominciata con Casini che in Transatlantico confidava: «Ho un gran mal di testa, stanotte non ho chiuso occhio», al forzista Maurizio Gasparri, prima di fermarsi a parlare con Umberto Bossi, si chiude col suo nome in vantaggio su quello di Draghi e degli altri contendenti. Anche perché, oltre al veto dei 5 stelle sul premier, c’è quello di Silvio Berlusconi. È per sua decisione che il vertice di maggioranza non si è più fatto in notturna: devono arrivare da Milano Licia Ronzulli e Antonio Tajani con un mandato: sventare l’accordo sull’ex presidente Bce.

Non ce ne sarebbe bisogno se quello che Salvini ha detto a Conte fosse vero. Ma nessuno è sicuro che lo sia. Tanto che al Nazareno, una volta capito che nessuno dei due schieramenti ha i numeri per tentare di fare da solo, si rimettono in pista tutti i nomi e tutte le ipotesi. Per dimostrare che non è certo il Pd a saper dire solo no. E per dirla con Letta: «Non è certo colpa nostra se è ancora tutto per aria!». Così tutto torna in campo, anche Andrea Riccardi, Amato, Draghi. Nel nome di cui si muove ormai più che apertamente Luigi Di Maio: il ministro degli Esteri M5S ha cominciato a contare i suoi sul nome di Mattarella. 125 voti quando l’indicazione è scheda bianca non è un numero da buttare via. Le molteplici guerre interne sono appena cominciate.

LA STAMPA

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