La villa dei bambini. Le storie di 25 piccoli sopravvissuti che furono affidati alla figlia di Freud

Le storie che Titti Marrone ci restituisce sono tutte vere, come veri sono i 25 bambini che sfilano in queste pagine: c’è Berl, il piccolo berlinese che tortura gli animali perché replica su quelle creature indifese le violenze a cui ha assistito nei confronti di uomini inermi come coniglietti. C’è Shana, che vuole cancellare a tutti i costi il numero che porta impresso sul braccio ma non potrà mai cancellare quello che ha nel cuore. C’è Esther, la bambina delle «adozioni fallite», che viene riportata indietro più di una volta da coppie che non sono in grado di confrontarsi con una genitorialità così difficile e con vissuti così traumatici. Ci sono le sorelle italiane, Tatiana e Andra Bucci, che riescono miracolosamente a tornare dai parenti che le credevano morte. Infine c’è Sergio, il bambino che a Lingfield non è mai arrivato. Ed è forse la sua voce, quella del bambino assente, a guidare Titti Marrone in questo lavoro di ricostruzione delicato e rispettoso e a renderla capace di entrare in punta di piedi nell’intimità di questi bambini, nei loro dolori, nelle stanze più buie dei loro ricordi. Nel corso delle pagine i momenti drammatici si alternano a quelli teneri o buffi, perché è vero che si tratta di sopravvissuti, ma sono pur sempre dei bambini. Tornano alla mente, in alcuni punti del libro, le immagini dei campi profughi di Moira, sull’isola di Lesbo, o quelle dei piccoli issati dai genitori al di là del filo spinato in Afghanistan e affidati a mani straniere. C’è tutta la compostezza, la docilità, ma anche il disagio dei bambini provati dalla guerra, oltraggiati dall’odio degli adulti, costretti a pagare per colpe che non hanno mai commesso. I più innocenti tra gli innocenti, le più incolpevoli tra le vittime, quelli che sarà più difficile risarcire dei torti subiti. Ma c’è anche il candore di chi, immerso in una voragine di disumanità, non dimentica di essere un bambino. Come il momento in cui vengono rievocati con entusiasmo disarmante i giochi che si facevano all’interno dei campi. È una scena che potrebbe essere fuggita dal film La vita è bella, per ingenuità e tenerezza: «Uno dei giochi era l’appello, che prima di cominciare suscitava grandi litigi perché tutti volevano fare la parte degli addetti alla sorveglianza, trovavano divertente anche fare il medico che svegliava con gli schiaffi chi fingeva di sentirsi male c’era il gioco chiamato “ebrei e Gestapo” con due squadre , una intenta a correre il più veloce possibile per tutto il cortile, l’altra ad acchiappare quelli che scappavano». Sono giochi che, al solo immaginarli, fanno venire la pelle d’oca, eppure testimoniano che anche tra il filo spinato e le urla dei kapò nei bambini la vita non smette di pulsare fortissimo.

Le storie si sommano, in questo libro che si snoda sulla linea di confine tra la documentazione e la narrazione e che non delude da nessuno dei due versanti. Ognuno dei 25 è protagonista, a ciascuno è riservato il giusto spazio e il tempo necessario, proprio come deve essere stato tra le mura di Lingfield grazie al lento e paziente lavoro di Alice Goldberger.

Elie Wiesel, in un suo volume di ricordi, E il mare non si riempie mai, confessa la sua più grande paura: «Più di tutto, tremo all’idea che la mia memoria possa svuotarsi, che io possa dimenticare le ragioni che mi hanno permesso di mettere un passo davanti all’altro, una parola dopo l’altra, di celebrare il diritto dei bambini a vivere in un mondo senza minaccia di accogliere la notte e il suo mistero, senza l’angoscia delle sue ombre malefiche».

C’è chi, per questa paura, ha trovato un antidoto: si chiama «scrittura».

LA STAMPA

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