Quirinale: la resa dei conti

Non è al dilettantismo che credono Di Maio e, da ieri, Enrico Letta. Ma a un disegno che punta davvero a spaccare tutto. Che mette in conto di andare al voto sulle macerie. Il nome di Casini, su cui si è lavorato per tutta la notte di mercoledì, su cui Antonio Tajani e Licia Ronzulli avevano detto ai dem: «Siamo pronti a votarlo anche domattina» in una notte fatta di trame ed incontri, è stato silurato in un minuto da una dichiarazione alle telecamere del segretario della Lega. Puf, scomparso. C’era stata, prima, anche l’ira della leader di Fratelli d’Italia, ma quel che da giorni chiede Meloni agli alleati è di contarsi, di provare a portare un nome e capire quale sia la reale forza del centrodestra. «Io i miei 66 li ho, e voi?». Questa è la domanda che rimane inevasa, nella colazione più tesa di tutta la settimana insieme proprio a Tajani e Salvini, tanto che alla fine – alla quarta votazione – Lega, Fdi e Forza Italia scelgono di non votare sfilando veloci per evitare reciproci scherzi.

Mentre si dà in pasto alle agenzie il nome di Franco Frattini, di nuovo, dopo che Letta e Renzi avevano già detto no levandolo dal tavolo, si lavora seriamente a quello di Giampiero Massolo – così rivela un dirigente dem – che davanti alla questione più evidente ormai, e cioè che sul Quirinale possa saltare l’alleanza Pd-M5S commenta: «Non tutti i mali vengono per nuocere». Il clima è questo. Enrico Letta è in serie difficoltà: accusato all’interno di non aver lavorato abbastanza sul nome di Casini, in modo da metterlo al riparo dall’asse Conte-Salvini. Impensierito da un Movimento 5 stelle che dà segnali sempre più acuti di sofferenza. Perfino il Pd, in aula, si è messo a contare i secondi che i parlamentari passano dentro il catafalco in cui sono chiamati a votare: più di trenta secondi non è scheda bianca. Più di trenta secondi, è insubordinazione. C’è un deputato che sta dentro e conta: i suoi colleghi gli vanno addosso. «Ma dove siamo finiti, siamo ancora all’Unione sovietica?». I più duri, i giovani turchi Matteo Orfini, Fausto Raciti. «Non è col cronometro che si tengono compatti i gruppi, ma condividendo le scelte», questo spiegano i dem più preoccupati da una situazione che pare arrivata al limite. E che soprattutto nessuno più sembra avere sotto controllo.

Ai vertici del Movimento cominciano a fare i conti con la paura del bluff: «Se alla fine si andasse su Draghi – ragiona Giuseppe Conte con i suoi vicepresidenti – se Salvini ci tradisse, noi dovremmo mettere la decisione al voto degli iscritti». L’idea è quella di farla accompagnare da un video di Conte e Grillo che spiegano le ragioni del no. Assumendosi il rischio che Di Maio si porti via i 120 che non hanno votato scheda bianca per dare comunque il sostegno di mezzo M5S a Draghi e formare, forte di un nuovo gruppo, un altro governo. Per la prima volta, i 5 stelle mettono in conto anche la scissione. Talmente distanti sono le opinioni del presidente e del capo della Farnesina. Il punto è che a spaccarsi sarebbe anche l’alleanza di centrosinistra. Franerebbero tutte le alleanze previste per le prossime politiche. A fronte di un centrodestra che resterebbe unito (e che giusto se si tornasse su Mattarella vedrebbe spaccarsi il fronte Salvini-Meloni). Se è una strategia, è suicida. E il precipizio è appena a un passo.

LA STAMPA

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