Politici e tecnici: l’inutile distinguo
Un’esperienza sul campo, nelle aziende, all’estero, nella grande finanza, nelle grandi università, non è in antitesi con la politica; è la forma moderna della politica
Dagli umori di Montecitorio, e dalle interviste dei veterani — De Mita, Formica — che hanno avuto la fortuna o la condanna della longevità, emerge un tema: lo scontro tra politica e tecnocrazia. Un tema interessante, ma a volte mal posto. La diffidenza dei parlamentari verso i «tecnici» non è immotivata. Molti tra loro hanno memoria del tempo in cui esistevano le sezioni di partito, le scuole di partito, i giornali di partito. Ma quel tempo è passato, e non tornerà. Oggi i partiti sono fatti da correnti e comunità mediatiche. Che vanno rispettate; ma non esauriscono il campo della politica. Andare in Germania a presiedere la Banca centrale europea e dire no alla Bundesbank, difendendo la moneta unica — come ha fatto Mario Draghi —, significa fare politica. Reggere la Farnesina, dalle unità di crisi al governo delle ambasciate — come ha fatto Elisabetta Belloni —, significa fare politica. Politica intesa nel modo moderno — relazioni internazionali e gestione delle crisi — che è stato di Carlo Azeglio Ciampi, che portò l’Italia nell’euro, e di Mario Monti, che a suon di multe milionarie fece rispettare alla Microsoft di Bill Gates le regole dell’antitrust.
Il parlamentare semplice, insomma il peone, insultato sui social e blandito dai clientes, sorvolato dai voti di fiducia e irriso dai giornali, va compreso. Questi giorni rappresentano il suo riscatto: il capo dello Stato lo sceglie lui; non i mercati, i tedeschi, il Financial Times. Giusto: finché l’elezione non sarà affidata ai cittadini, funziona così. Ma anche il parlamentare semplice avverte quello che il presidente della Puglia Michele Emiliano nella sua apparente naïveté chiama «il fiato del Paese», e che Simone de Beauvoir chiamava «la forza delle cose». Non è vero che gli italiani siano contro la politica, anzi, l’elezione del presidente della Repubblica è sentita come un momento solenne, apicale. Proprio per questo l’impreparazione dei partiti, la manfrina dei veti incrociati, financo la burla dei voti per Terence Hill e Nino Frassica è vissuta come una ferita, una mancanza di rispetto, un’offesa al senso dello Stato e all’amor di patria, al lavoro e al risparmio (il Parlamento nasce per decidere come spendere le tasse versate dai cittadini).
Non esiste e non è mai esistito un muro tra la politica e la società, l’economia, la vita. Wilson, il presidente che fece vincere all’Intesa la Grande Guerra, era il rettore di Princeton; Reagan, il presidente che fece vincere all’Occidente la guerra fredda, era un attore. De Gaulle era un generale, il suo primo ministro e successore Pompidou era un banchiere. Il primo presidente della Repubblica eletto per sette anni, Luigi Einaudi, non era uomo di partito; era un professore di scienza delle finanze dell’università di Torino, che un giorno si vide entrare in ufficio il figlio di un droghiere, venuto a chiedergli un articolo per la sua piccola rivista, specificando che non poteva pagare. Un barone di oggi l’avrebbe messo alla porta. Einaudi rispose: «Certo, volentieri, mi dica la lunghezza che le serve». La rivista era «La rivoluzione liberale», il figlio del droghiere si chiamava Piero Gobetti; gli restavano pochi anni di vita, segnati dalle bastonature dei fascisti.
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