Politici e tecnici: l’inutile distinguo
Guardiamo ai partiti che si fronteggiano oggi in Parlamento. La Lega è stata fondata da un uomo che ha festeggiato per tre volte una laurea in medicina che non ha mai preso; eppure il fiuto politico di Umberto Bossi è fuori discussione, basta fare una passeggiata in Transatlantico per toccare con mano la venerazione dei leghisti e il rispetto degli avversari. Il partito democratico è stato fortemente voluto da un professore di Bologna, Romano Prodi, a lungo osteggiato dai politici di professione. Forza Italia è stata fondata ed è tuttora guidata da un letto d’ospedale dal padrone delle tv (e un tempo del Milan). Poi, certo, i più bravi nella manovre sono i giovani cresciuti nei partiti, da Giorgia Meloni a Matteo Renzi. Ma tutto questo conferma che la dicotomia tra politica e tecnica, tra Palazzo e società, è superata dai fatti.
Oggi — per resistere alla tecnofinanza, ai padroni della Rete, all’inflazione, alle autocrazie, alla fuga delle multinazionali e dei grandi patrimoni nei paradisi fiscali — i politici venuti dal Parlamento e dai partiti e i politici formatisi nelle istituzioni finanziarie e diplomatiche devono lavorare insieme, completarsi a vicenda. Un’esperienza sul campo, nelle aziende, all’estero, nella grande finanza, nelle grandi università, non è in antitesi con la politica; è la forma moderna della politica, che poi si traduce nella capacità di risolvere i problemi. Basti vedere le facce incredule con cui in questi giorni si guardano attorno, tra i fregi del Palazzo romano, i presidenti di Regione. Non potrebbero essere più diversi: giovani democristiani come Cirio, vecchi comunisti come De Luca, missini come Musumeci, socialisti come Giani, ulivisti come Bonaccini, leghisti come Zaia, Fontana, Fedriga. Tutti eletti dai cittadini, tutti che dicono la stessa cosa: diamo agli italiani un presidente cui ognuno possa guardare con rispetto, senza badare alle tessere di partito e senza perdere altro tempo e la residua dignità.
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