Il presidente sta alla finestra Ma con un vero plebiscito potrebbe accettare il bis

Massimiliano Scafi

«Ma insomma». No, non si estorce altro oggi dal Colle. Non un commento, non una reazione, nemmeno un moto di umana soddisfazione personale per quei 166 voti deposti dai grandi elettori nelle insalatiere un po’ kitch di Montecitorio. «Il presidente non esiste», sostengono i suoi uomini. Non interviene, non parla, non fa trapelare. Non può, non vuole e non deve dire niente. Se è contrariato, se lo tiene per sé. Se è lusingato, non lo dimostra, si limita «ad assistere». Una cosa però, sotto la cortina di silenzio, si capisce bene: se tutte quelle schede servono a fargli cambiare idea, ad accettare un bis, ebbene ancora non basta. Il segnale è debole, ci vuole ben altro, magari un’iniziativa più formale e strutturata, meno abborracciata, e non è detto che funzionerà.

E quindi, siamo al «ma insomma». Al Quirinale il ragionamento si ferma a queste due parole, però possiamo immaginare come prosegua: ma insomma, tu che sei bruttino e messo male in arnese, come puoi pensare di andare a corteggiare la ragazza più bella del quartiere scrivendo «ti amo» sul muro con la vernice, come un graffitaro? Che pretese. E che modi, non ci si comporta così: almeno devi presentarti con l’anello. La forma in questo casi diventa sostanza. Dunque, almeno al momento, la proposta è irricevibile, anzi non viene neanche considerata una proposta. Dario Franceschini, che sta organizzando «l’appello spontaneo dei grandi elettori» per spingere il capo dello Stato a tornare sui suoi passi, dovrà ancora lavorarci parecchio su.

Eppure, le schede per Sergio Mattarella sono ormai un’onda crescente. Più che un’invocazione, o la richiesta di stabilità, o la paura delle elezioni anticipate, qui siamo di fronte a una vera proposta politica, all’uovo di Colombo che consentirebbe di rassicurare le cancellerie e i mercati, di confermare l’assetto istituzionale che sta portando fuori il Paese dalla pandemia e dalla crisi economica e, a tutti i protagonisti della corsa al Colle, di salvare la faccia. Peccato che il diretto interessato non sia d’accordo: sono sei mesi che il capo dello Stato, da quando è scattato il semestre bianco, non perde occasione pubblica per ripetere come lui sia indisponibile, per motivi costituzionali, a un secondo mandato. Ha citato Leone e Segni, ha spiegato che sette anni sono già troppi, ha sostenuto che dopo il bis di Napolitano non si poteva fare una seconda eccezione. Ha fatto gli scatoloni, li ha fatti postare persino su Twitter dal portavoce Giovanni Grasso.

Ma i partiti, Cinque Stelle e anche Pd, non demordono. L’idea originaria per convincere il presidente era proprio quella di copiare quanto è successo nel 2013 con Giorgio Napolitano. Candidati impallinati, guerra per bande, in panne pure le contemporanee trattative per la formazione del governo dopo il pareggio tra Nazareno e grillini, all’epoca incompatibili. Per risolvere il grande ingorgo istituzionale, i leader delle principali forze politiche si presentarono al Quirinale da King George con il cappello in mano pregandolo di restare. Napolitano accettò, strapazzo i partiti con un durissimo discorso di insediamento e varò l’esecutivo di unità nazionale guidato da Enrico Letta.

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