Renzi e il Quirinale: «Qui non siamo a Sanremo». Lucido e cinico, le 5 giornate del leader di Italia Viva
di Fabrizio Roncone
Matteo Renzi sostiene di non essere «quello che dà le carte» in questa elezione del presidente della Repubblica. Ma sono in molti ad aspettare (e temere) le sue parole: «È l’unico che può sapere qualcosa…»
S i è messa male.
Aria pesante
nel cortiletto di Montecitorio (a parte l’allegria trattenuta di certi
forzisti — curioso, eh? — che godono come matti per il tragico tonfo della Casellati).
Rapida occhiata: ecco Ignazio La Russa che ha appena ringhiato a Giovanni Toti: «Stai festeggggiàndooo pure tu…»; la leghista Laura Ravetto rimprovera a sua volta duramente un tipo alto, che subito china la testa; nuvole dolciastre di sigaro cubano; Marco Rizzo, l’ultimo comunista italiano, seduto a gambe larghe su una panchina davanti alla fontana, osserva tutti disgustato.
Poi al cronista di un tigì squilla
il cellulare. È il suo direttore. Breve colloquio. Ripone il cellulare
in tasca: «Il capo vuol capire come finisce. Dice che devo farmi una
chiacchierata con Matteo,
l’unico che può sapere qualcosa». Salvini? «Sei scemo?».
Cercare Matteo Renzi.
Farlo parlare, spiegare.
Del resto: è ormai da lunedì che Renzi sta sempre un po’ avanti nella narrazione di questa storia Quirinale. Lucido, spiazzante, mai consolatorio. Però niente stupore: perché se c’è uno che sa alla perfezione come si elegge il capo dello Stato, è lui. Stavolta, ovviamente, non può dare le carte. E ne è cosciente. Alla vigilia del voto spiegò: «Io il kingmaker nell’elezione del Presidente? Con Mattarella sì, questo giro no. Sette anni fa, ai tempi del Pd, avevo 400 parlamentari. Ora, con Italia Viva, ne controllo 40: è leggermente diverso». Così cerca di svelarci le carte che hanno in mano gli altri. E come dovrebbero giocarsele.
WhatsApp a chi si fida (adora spedirne, è velocissimo a scriverli: mezzo di comunicazione preferito). Brevi telefonate. E spettacolari ingressi in Transatlantico: eliminata l’odiosa pinguedine (prima di venire qui, al mattino presto, si infila una tutina di fibra nera da runner professionista e parte sparato correndo nei vicoli dietro piazza San Lorenzo in Lucina), abito blu modaiolo e quindi un po’ striminzito, un filo di abbronzatura (ricordo dei recenti viaggi d’affari in Arabia Saudita), passo sicuro, rallenta e si lascia consultare.
Di solito, è fulminante: «Serve un accordo, non siamo Sanremo» (materiale per articolo e titolo nella stessa frase). Pragmatico: capita l’antifona, intuita la palude, l’altra mattina ha sollecitato: «Mi auguro che la presidenza inizi a farci votare due volte al giorno: c’è una crisi tremenda in Ucraina». Decodificato: dobbiamo cominciare a contarci, ci sarà sicuramente qualche candidato da sacrificare, va capito se i capi dei partiti controllano i gruppi, e quanti franchi tiratori vi si annidano; con una sola votazione al giorno, a carnevale, saremo ancora qui (e non è detto che comunque vada diversamente). Sprezzante davanti ad alcune soluzioni proposte dall’altro Matteo. Tipo quando il Capitano ha cominciato a dire che avrebbe presentato una cinquina di candidati. «Siamo in Parlamento: questa non è una sala da super bingo». Ruvido, e però talvolta accudente: «Quello che comunque ha l’asso in mano è lui, Salvini. Deve solo decidere quando calarlo».
Su Draghi è, da giorni, il più netto. E il più incalzante. «È Maradona, il nostro fuoriclasse: dove vogliamo farlo giocare? Chiaro che può andare al Quirinale, ma solo attraverso un percorso politico, non un concorso a premi». Sull’ipotesi Elisabetta Belloni: «È il capo dei Servizi segreti. Ipotesi non percorribile. Il presidente dell’Egitto Abdel Fattah al-Sisi ha fatto un percorso così». Quando sente che il centrodestra ha deciso di puntare su Maria Elisabetta Casellati, va giù duro: «Andare avanti è difficile: a questo punto non escludo un Mattarella bis» (lo dice a Radio Leopolda, una web radio un po’ pirata, diretta da Roberto Giachetti, che qui nel cortiletto piace un sacco: per dire, s’è collegato anche Enrico Mentana).
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