La bancarotta della politica e i costruttori della democrazia

MASSIMO GIANNINI

Tra le rovine fumanti di un sistema politico distrutto dalla sua inconcludenza, il tempo dei “costruttori” non poteva essere finito. E infatti restano lì, al loro posto, i due uomini di buona volontà che hanno guidato il Paese nella crisi più devastante del dopoguerra. Non abbiamo sbagliato, quando abbiamo riassunto la partita doppia che incrociava i destini del Capo dello Stato e quelli del capo del governo con la formula rituale: “Simul stabunt, simul cadent”. Non abbiamo sbagliato, quando nell’ora più buia di questa ennesima notte repubblicana abbiamo ripetuto più volte un elementare principio di buon senso istituzionale ed esistenziale: nel caos, si torna sempre ai fondamentali. E i fondamentali, nell’Italia di oggi, sono due: Sergio Mattarella e Mario Draghi. I “costruttori”, appunto: un’immagine che il primo evocò un anno fa, quando conferì al secondo l’incarico di formare “un governo di alto profilo e senza nessun colore politico”. 

La conferma di Mattarella è un fattore irrinunciabile per la stabilità delle istituzioni. Conosciamo bene, e le abbiamo condivise, le ragioni che il Presidente aveva opposto di fronte all’ipotesi di un bis. La nostra è pur sempre una repubblica parlamentare, e un doppio mandato di quattordici anni la trasformerebbe in una monarchia costituzionale. È dunque il Parlamento che deve scegliere, senza pretendere alcuna forma di supplenza. Ma siamo alle solite: questo principio funziona in un Paese normale. E noi non lo siamo. Per questo, anche stavolta, i partiti allo sbando salgono sul Colle col cappello in mano, pregando il Presidente di restare al suo posto. Come già successe nell’aprile 2013 a Giorgio Napolitano.

E per questo, anche stavolta, il Presidente non si può tirare indietro, se non al prezzo di lasciare che collassi l’intero Sistema-Paese. Un lusso che nessun servitore della Patria si può permettere.

Perché questa, con tutta evidenza, è l’altra faccia della rielezione: Mattarella costretto a raddoppiare il settennato sancisce la bancarotta dei partiti. A lui siamo tornati dopo lunghe giornate e intere nottate di liturgie negoziali, a metà tra la carboneria e il reality show. Dove la cortina fumogena della retorica politichese (dalle “figure di alto profilo” alle “personalità di standing elevato”) ha nascosto il vuoto pneumatico delle idee e delle identità. E dove candidati verosimili, improbabili o incredibili sono stati macinati nello stesso tritacarne. Una vera e propria cerimonia cannibale, consumata tra la sgangherata ridiscesa in campo del Caimano, la posticcia rosa destrorsa Pera-Moratti-Nordio, il sacrificio insensato della scoiattola Casellati, e infine la scandalosa scommessa finale del tris di donne Belloni-Cartabia-Severino, eccellenze italiane che non meritavano di essere usate in un gioco al massacro cinico e baro.

L’epilogo non poteva essere che questo. I partiti paralizzati in quello che è stato ribattezzato lo “stallo messicano”. I tanto vituperati “peones” che in un imprevisto sussulto di coraggio mettono in mora i loro leader, lasciando che il voto spontaneo per Mattarella venga a galla nella palude melmosa delle schede bianche. Infine la politica costretta a portare i libri in tribunale e ad affidarsi al Presidente della Repubblica uscente perché resti a fare da commissario liquidatore di uno Stato quasi fallito. Altro che ansia di rivincita della Politica sulla Tecnica. Altro che voglia di riconquista della sovranità perduta, anche a costo di rimandare a casa l’ex banchiere centrale. Di cotanta speme, resta quello che c’era prima. Mattarella al Quirinale, Draghi a Palazzo Chigi. Una democrazia fiaccata dall’impotenza dei partiti senza popolo e inchiodata a due sole figure indispensabili, purtroppo le uniche capaci di assicurare l’agibilità del sistema e la credibilità del Paese.

Finché c’è e finché regge, questo asse è una polizza vita per la nazione. Nel tragicomico Quirinal Game appena concluso abbiamo rischiato grosso. Una mossa dissennata sul nuovo inquilino del Colle sarebbe stata sufficiente a spedire ai giardinetti “Nonno Mario”. E solo una nomenklatura mediocre e provinciale può non rendersi conto di quanto valga ovunque nel mondo il “dividendo Draghi”. Per questo avevamo detto e scritto che sarebbe stato di vitale importanza non rinunciare a questa risorsa, qualunque fosse l’incarico che gli si fosse voluto affidare. Almeno da questo punto di vista, l’esito finale è positivo.

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