La bancarotta della politica e i costruttori della democrazia
Il governo si rafforza. Quest’anno è per noi decisivo: dovremo meritarci la seconda rata da 40 miliardi dei fondi europei con 66 riforme entro giugno, gestire un caro-energia che sta intaccando la ripresa, fare i conti con un debito pubblico al 160 per cento del Pil mentre la Bce inizia a ridurre l’acquisto dei nostri Btp. In questa tumultuosa road-map, Draghi potrà contare sulla sponda sicura dello stesso Capo dello Stato che gli ha consegnato le chiavi di Palazzo Chigi un anno fa. E i rapporti di forza con la sua maggioranza adesso ricambiano a suo favore. Dopo questa pessima prova, e nonostante l’anno elettorale che incombe, è difficile immaginare che gli alleati abbiano la forza di consumare vendette. Toccherà al premier, semmai, decidere come potenziare la squadra. Per il resto, ci aspettiamo che riprenda l’azione di governo con la stessa energia dei primi mesi. D’ora in poi, dal fisco al catasto, dalla legge sulla concorrenza alla liberalizzazione dei balneari, non ci sono più alibi neanche per lui.
Le coalizioni si sfarinano. Il centrosinistra ha giocato di rimessa, con un numero di Grandi Elettori non certo determinante. Per Letta, Mattarella è stato “il massimo” fin dall’inizio. In subordine, c’era Draghi. Uno schema un po’ statico, a tratti rinunciatario, ma che alla fine ha dato i suoi frutti. Le correnti restano e pesano, ma almeno stavolta il compromesso è stato virtuoso. Il centrodestra come l’abbiamo conosciuto finora, al contrario, non esiste più. Ha dissipato un gigantesco capitale, prima prigioniero del velleitarismo berlusconiano, poi vittima dell’avventurismo salviniano.
Le forze populiste e sovraniste che trionfarono nel 2018 hanno fallito la prova di maturità. Sul fronte Lega, Capitan Salvini si è illuso di poter dare la spallata, senza avere né i nomi né i numeri per farlo. In molti abbiamo pensato che ci fosse del metodo nella sua apparente schizofrenia. Forse ci siamo sbagliati. Ora la sua leadership è in pericolo. Non voleva Mattarella, voleva dare il benservito a Draghi, e alla fine se li ritrova tutti e due. La Lega governista, da Giorgetti ai governatori regionali, gliene chiederà conto. Sul fronte grillino, l’Avvocato Conte ha pagato l’eclissi pentastellata in atto da tempo. Ha ragione, a suo modo, quando dice “non è vero che abbiamo cambiato posizione”: per cambiare posizione, infatti, bisogna averne una. E lui non ce l’ha avuta. Se non una, ossessiva: mai Draghi sul Colle. Questo obiettivo l’ha raggiunto. Per il resto, il solito nulla raccontato con enfasi. Anche qui c’è una leadership periclitante, e si sta per consumare la madre di tutte le battaglie con un’altra ala governista, quella di Luigi Di Maio.
Nulla sarà più come prima, in questa Italia che scivola verso un regime presidenziale-preterintenzionale. E qui si impone un’ultima riflessione, che riguarda proprio Mattarella. La rielezione, piaccia o no, configura un altro passo nello stato di eccezione. E sono vent’anni, ormai, che di eccezione in eccezione stiamo manomettendo senza accorgercene la Costituzione formale e materiale. È ora di fermare i motori, e di fare un serio tagliando alla macchina. Ripensare, in modo finalmente organico e coerente, la legge elettorale, i regolamenti parlamentari, la forma di governo. Una spinta decisa a queste grandi riforme ce l’aspettiamo anche dal “nuovo” Presidente. Mattarella non è Cossiga, per fortuna. Ma qualche colpo di piccone, alle incrostazioni della nostra democrazia bloccata, qualcuno dovrà pur cominciare a darla. E chi può aprire il cantiere, se non i “costruttori”?
LA STAMPA
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