L’applauso e il rifugio dei partiti fragili: grazie Presidente

ANNALISA CUZZOCREA, FRANCESCA SCHIANCHI

Quando lo spoglio sta per iniziare, Luigi Di Maio entra in Transatlantico come fosse un saloon e un gruppetto di parlamentari del Movimento 5 stelle comincia ad applaudire. Appena un antipasto di quello che succederà di lì a poco, alle 20.20, alla fatidica soglia dei 505 voti che certificano l’elezione: abbracci, vai Luigi, pollici alzati, un pugile che ha vinto il suo incontro. In un corridoio vicino, uno dei fedelissimi di Giuseppe Conte commenta: «Patetico». Mentre il presidente M5S spiega meglio quel che ha detto prima in conferenza stampa: «È andato contro la linea del Movimento, sono in moltissimi a dirmi che così non va bene, è una questione che dovremo affrontare». Al sesto giorno di votazioni per il presidente della Repubblica, al sospiro di sollievo del mattino – quando Matteo Salvini apre sul bis di Sergio Mattarella, seguito da una nota del presidente del Consiglio Mario Draghi che va nella stessa direzione – seguono, subito, i veleni, le veline, le dichiarazioni di chi corre veloce davanti a qualsiasi telecamera per poter dire: «Ho vinto io». O per aprire la resa dei conti: «Alcune leadership hanno fallito, creato divisioni», denuncia il ministro degli Esteri, onnipresente alla Camera in questi giorni, «nel Movimento serve aprire una riflessione politica interna». Si sente vincitore, vuole riscuotere il suo premio.

Hanno perso tutti, in realtà. Anche se davanti a quel «Mattarella» ripetuto 759 volte di seguito – il secondo presidente più votato della storia, dopo Sandro Pertini – scattano tutti in piedi dalle poltroncine di pelle amaranto. Chi è potuto restare in aula, come Letta, guarda con sollievo il suo gruppo. Più tardi, in Transatlantico, abbraccia Conte: «Che fatica, comunque una grandissima cosa». Il pericolo è scampato e nonostante tutto «il campo largo», come il segretario dem ha ribadito poco prima, ha tenuto. Ha frenato la spallata del centrodestra sul nome di Maria Elisabetta Casellati quando ha dovuto, lasciando che si vedesse plasticamente come a una candidatura istituzionale mancassero i voti degli stessi partiti che la proponevano. Ha lavorato per far crescere progressivamente il nome di Mattarella a ogni votazione, come un richiamo. Non troppo per non spaventare e vanificare ogni altra ipotesi, ma abbastanza perché si potesse arrivare al risultato di ieri. Con Matteo Renzi c’è stata un’intesa sui fondamentali, bloccare un candidato di destra, non su tutto però. Perché ancora ieri mattina il leader di Italia Viva aveva messo sul tavolo il nome di Pier Ferdinando Casini. Per tutta risposta, il segretario Pd si era alzato ed era uscito dalla stanza: niente contro il nome del senatore di Bologna – eletto sotto il simbolo del suo partito e poi passato al gruppo misto – ma quella scelta «preludeva a un disegno centrista che non è il mio», spiega più tardi. In testa Letta ha il centrosinistra. Anzi, l’Ulivo. Casini si fa da parte da solo non appena capisce che tocca, ancora, a Mattarella. «È la persona che invidio meno al mondo – confida a un amico – questi sono pazzi da legare».

E in effetti, la giornata che doveva essere quella della ricomposizione di un quadro politico, con i capigruppo di maggioranza che vanno in processione dal presidente della Repubblica per rappresentagli la volontà del Parlamento e ringraziarlo a mani giunte, come fa Loredana De Petris, e sentirsi dire con umiltà – lo racconta Debora Serracchiani – «farò del mio meglio», con i presidenti di Regione che fanno lo stesso, continua con una serie di ricostruzioni e accuse incrociate degne della settimana appena trascorsa. Fatta di piccole trame e grandi interessi: quello di Matteo Salvini di tenere in mano il centrodestra, fallito miseramente per i continui cambi di asse, i nomi bruciati, le intemperanze poco adatte a un rito che ha bisogno di 505 sì e cui in questo momento serviva molto di più: un voto che non spaccasse la maggioranza di governo. Quello di Giorgia Meloni, che sperava in Mario Draghi perché tutto saltasse e arrivassero finalmente le urne, visto che i sondaggi premiano il suo partito più di ogni altro a destra. L’interesse di Conte di non mandare Mario Draghi al Colle, diventato giorno dopo giorno, ora dopo ora, quasi un’ossessione. Quello di Luigi Di Maio di fare il contrario, come avviene ormai praticamente su tutto.

Racconta il presidente della Regione Emilia-Romagna Stefano Bonaccini che il capo dello Stato ha confermato, è vero, aveva altri piani, ma, come ripete a sera, nel suo breve messaggio tv, ci sono condizioni che «impongono di non sottrarsi ai doveri cui si è chiamati e naturalmente devono prevalere su altre considerazioni e prospettive personali differenti». Una lezione che in questa storia pochi leader sembrano aver appreso. Mattarella davanti ai governatori ricorda l’importanza della collaborazione istituzionale in questi due terribili anni di pandemia. Poi, si ferma con ognuno di loro. Compresi Marco Marsilio e Francesco Acquaroli, presidenti di Abruzzo e Marche di Fratelli d’Italia, a cui dedica tempo per parlare del post-terremoto. Loro, lì, sono andati per una forma di cortesia istituzionale, ma fanno presente al capo dello Stato che non lo voteranno: «Avevo preso molto sul serio la sua lezione di diritto costituzionale sulla non rielezione», lo rimbrotta educatamente Marsilio. «Eh, speriamo che il Parlamento faccia chiarezza», la risposta del presidente rieletto, come a intendere la speranza di una legge costituzionale che intervenga sull’argomento.

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