L’applauso e il rifugio dei partiti fragili: grazie Presidente

A guidarli era il leghista Massimiliano Fedriga, che come il veneto Luca Zaia, come Giancarlo Giorgetti, tifava neanche troppo segretamente per Mario Draghi al Quirinale. Ma sembra ora soddisfatto di una soluzione che garantisce la stabilità di cui gli amministratori sentono il bisogno. «Alle condizioni date quella di Matteo è stata… – mormora appena Giorgetti – una vittoria… non poteva certo accettare Casini, no?». Di certo il passaggio non è indolore, con i parlamentari che avevano creduto alla ipotesi di Cassese, o di Casellati, o di una ipotetica donna, o uno dei tanti altri nomi inceneriti in poche ore da Salvini, che solcano perplessi il Transatlantico («sono entrato nel catafalco e la mano non riusciva a scrivere quel nome…», scherza o forse no Claudio Borghi) ed è proprio il ministro ad aprire un caso, quando in mattinata evoca le dimissioni dal governo. Tanto che nel pomeriggio Salvini improvvisa con lui una sorta di conferenza stampa in un corridoio di Montecitorio: chiederemo un incontro a Draghi, serve una nuova fase, ci sono chiarimenti necessari, elenca il segretario mentre il ministro con la sua presenza lì accanto fa da garante di una sempre più vacillante armonia nel Carroccio.

Le processioni verso il Colle, gli scatoloni già fatti, l’appartamento preso, una donna che attende di essere liberata da doveri istituzionali che mettono la vita quotidiana fra parentesi: sembrano il remake del film già visto nel 2013 con la rielezione di Giorgio Napolitano. Ai tempi era la moglie Clio, che tolse il saluto ai dirigenti dem che andarono a scongiurare il presidente uscente. Adesso, si è detto che è per far tornare al suo lavoro la figlia Laura, che il presidente avrebbe voluto lasciare.

La possibilità che potesse farlo lasciando il posto proprio a una donna come Elisabetta Belloni, Marta Cartabia, Paola Severino, è stata bruciata da una specie di corsa pazza ancor prima che se ne potesse parlare. «C’era un accordo su di lei con Letta e Conte», racconta Salvini difendendosi dall’accusa di aver solo giocato. «Avevo il mandato a trattare con la Lega proprio sul suo nome», spiega Conte, che il giorno prima aveva telefonato a Beppe Grillo per dirgli «è fatta, sarà lei, fai un tweet di sostegno così compattiamo i gruppi». Il tweet è arrivato quando il nome era già stato impallinato da Italia Viva, Forza Italia, sotto sotto anche da un pezzo di Pd. Spiega Letta paziente che «la disponibilità era subordinata a una verifica nei gruppi e con la maggioranza. Ma prima che la verifica si facesse era stata bruciata da dichiarazioni improvvide». I Cinque stelle continuano a rivendicare di averci provato fino in fondo. E che importa se la maggioranza si spaccava e poi si andava al voto.

Non sarà così. Ha scelto la forza «dal basso», dice Letta. I segnali dei peones, orchestrati però dall’alto, per arrivare al risultato. «Parlamentari euforici per non aver cambiato nulla e aver costretto Mattarella a un altro mandato. Cosa festeggiano? Che lo stipendio è salvo», è furiosa Giorgia Meloni. Per lei la rendita dell’unica opposizione al governo, ma anche il probabile isolamento. Centrodestra deflagrato, centrosinistra attraversato da diffidenze e sospetti: «Ora il rapporto Letta-Conte è più adulto», dicono nel Pd, a significare che si conoscono meglio, virtù, certo, ma soprattutto difetti. Per il governo, sicure fibrillazioni e poi chissà. Non passerà molto che si comincerà a parlare di legge elettorale, «questa giornata segnala la necessità di una riforma profonda della politica e della ricostruzione del sistema dei partiti», sembra invocare la discussione il vicesegretario dem Peppe Provenzano. Il giuramento del nuovo-vecchio presidente sarà giovedì. —

LA STAMPA

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