Destra, la grande incompiuta

di Ezio Mauro

Una partita nata male, giocata peggio, è finita bene. Ha confermato un galantuomo di sicura fedeltà democratica e costituzionale al Quirinale, da dove potrà guidare questa fase di transizione con saggezza politica, imparzialità, rispetto per le istituzioni e il loro decoro. Ha reingaggiato Mario Draghi alla guida del governo, dove potrà spendere la sua perizia tecnica nelle due emergenze che un anno fa è stato chiamato a fronteggiare, il contrasto alla pandemia e la realizzazione delle condizioni per l’utilizzo dei fondi straordinari del piano europeo di ricostruzione: a cui si deve aggiungere necessariamente l’emergenza sociale richiamata da Mattarella nelle poche parole pronunciate dopo la sua rielezione, e cioè la crisi del lavoro, la crescita delle disuguaglianze e le nuove povertà.

Ha infine stabilizzato il vertice della Repubblica offrendo ai cittadini, ai partner internazionali e ai mercati l’immagine di un Paese che sceglie la continuità nell’indirizzo del governo e dello Stato, riconfermando l’Europa e l’Occidente come cornice di riferimento e arginando i populismi, l’antipolitica e il nazionalismo, frutti velenosi di questa stagione di indebolimento delle democrazie.

C’era tutto questo in gioco, nella contesa per il Quirinale, sotto l’apparenza di un torneo tra leader di nome e non di fatto, che inventavano candidature destinate ad appassire in poche ore, inseguivano tattiche contraddittorie senza un’idea di strategia, sbagliavano tempi e modi gettando nella mischia ruoli pubblici delicati senza riguardo istituzionale e senza la tessitura di una rete politica di sostegno.

Questa estemporaneità tragica trasforma la politica in gesto, mai in disegno, costruzione e prospettiva. Ed espone perciò la Repubblica ai contraccolpi e alle sorprese di un’invenzione spuntata per caso, o a veri e propri rischi come la nomina alla guida del Paese di personaggi clamorosamente inadatti al ruolo, anomali rispetto alla funzione richiesta, dunque pericolosi.

L’incertezza politica nella guida del conclave parlamentare è stata percepita dai cittadini, spettatori di un procedimento sicuramente democratico ma inconcludente, perché girava a vuoto su se stesso. Più ancora è stata avvertita dagli stessi Grandi elettori, immediatamente trasformati in un soggetto collettivo autonomo, senza una linea di comando riconosciuta e quindi in balia di paure e incertezze, che innescavano inevitabilmente l’istinto di autoconservazione.

Procedure pubbliche d’eccezione, come la riunione congiunta di deputati, senatori e delegati regionali per la scelta del presidente della Repubblica sono anche un test radicale che mette a nudo la democrazia, aprendo il suo meccanismo per valutare l’efficienza dei suoi congegni. Questa volta l’evidenza ha confermato che manca il “sistema”, perché manca una visione condivisa del bene comune, com’è naturale in una fase in cui vengono messi in discussione lo Stato di diritto e il carattere liberale della democrazia, guardando agli esperimenti neo-autoritari che attraversano l’Europa. In più la società politica disarticolata non ha punti di equilibrio su cui appoggiarsi, e questa è la vera rivelazione delle giornate quirinalizie.

A sinistra si è infatti aperta una crepa nell’alleanza tra il Pd e il Movimento Cinque Stelle, più volte in questi giorni tentato da una sintonia con Salvini piuttosto che con Letta. Questa oscillazione anomala è dovuta a tre fattori: l’incertezza della guida, esercitata da Conte ma contesa da Di Maio e costretta a patteggiare ogni scelta con l’ombra incombente di Grillo; il sentimento del declino del consenso che suscita il dubbio nel futuro e la ricerca di qualsiasi via di fuga dall’incertezza; la mancata definizione di una cultura politica unificante, capace di determinare scelte, alleanze, indirizzi, e di spiegarli ancorandoli. È un nodo da sciogliere al più presto, anche perché coinvolge il Pd, e annebbiando la prospettiva dell’alleanza gli impedisce di monetizzare fino in fondo i risultati della gara presidenziale, dove Letta ha bloccato gli improbabili Berlusconi e Casellati e ha dirottato gli altri nomi di destra, favorendo – mentre puntava su Draghi – il ritorno di Mattarella. E intanto nella crepa tra M5S e Pd si è già infilato Renzi, almeno con un piede.

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