La rivoluzione di Grillo è finita in un condom
“Va tutto bene, mi usano un po’ come condom per la protezione del Movimento, capisci?”, dice oggi Beppe Grillo, l’uomo che ha spaccato in due la politica italiana senza bene sapersene che fare e oggi per sua stessa ammissione costretto a fare da scudo di protezione in lattice alle esimie teste che hanno spappolato il Movimento 5 stelle.
Dall’opera di distruzione della casta all’operetta è un attimo che dura una decina di anni, il visionario fondatore mestamente passato dall’immaginare il futuro con piste da sci sopra i termovalorizzatori per coniugare ecologia (transizione ecologica all’epoca non si portava) al curatore fallimentare di una guerra di carte bollate che servirebbe un manuale di diritto amministrativo o di autodistruzione-in-5-semplici-mosse per raccapezzarci qualcosa.
Il senso della fine d’altronde Beppe lo ha avuto fin dalle origini, a insistere più e più volte sul Movimento biodegradabile, sul scusateci, rivoluzioniamo tutto e poi ce ne andiamo. Ma una cosa l’ha avuta sempre chiara: “Non siamo un partito, se non cambiamo meglio scordarci le politiche”. Era il marzo di dieci anni fa, le politiche quelle che cambiarono il panorama politico italiano, quasi duecento grillini a imperversare in Parlamento. Nel mondo alla rovescia di oggi le politiche il M5s se le scorda se non riuscirà a trasformarsi effettivamente nella sua nemesi, quel partito con statuti e organismi a prova di tribunali, che riesca a raggranellare fondi dal 2×1000, che si acconci sulla prospettiva di una legge elettorale decente che con qualcuno bisognerà pur arrivare a governare.
Il fondatore non è mai stato tipo da seguire il day-by-day della sua creatura, ma la visione quella sì, il disegno grande pure, le parole d’ordine anche. Insomma, senza il discutibilissimo armamentario che l’ha reso attrattivo per milioni di cittadini, senza la speranza e la promessa di cambiare tutto, di rovesciare il tavolo, i 5 stelle non sarebbero mai usciti dal meetup. C’era Casaleggio, dicono, il padre, Gianroberto, lui sì che era un visionario, non come il figlio , archivista dell’eredità e poco più, sbattuto fuori dalla porta appena ha pensato che magari poteva far politica. Ed è vero, ma da solo non sarebbe bastato, senza quel megafono dal carattere irascibile e incostante ma dal carisma magnetico e dall’indubbia capacità comunicativa.
C’era “Gaia”, lo spernacchiatissimo video made in Casaleggio che prediceva un futuro distopico, c’era l’afflato di mettere in piedi una cosa mai vista, l’idea pian piano maturata di entrare a Palazzo magari per non distruggerlo, ma almeno per riverniciare la facciata sì. Eccolo qui a un mese dall’ingresso in Parlamento, primavera 2013: “Abbiamo solo affrettato i tempi. La rete non dà spazio alle intermediazioni, via i politici che sono intermediari, via i giornali, si bypassano le televisioni. Siamo una realtà di internet ed internet è il mondo. Io voglio che l’Italia diventi una comunità”. Una comunità non lo è diventato nemmeno il suo partito, che dopo anni di faide di lotte e di principi draconiani spazzati via nel nome del potere si vede smunto nei consensi e del tutto privo di una visione del futuro.
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