“Se Mario lo vorrà, io sarò al suo fianco anche questo è un dovere della medicina”
Grazia Longo
È un dato assodato: è corretto l’uso del barbiturico Tiopentone per il suicidio medicalmente assistito chiesto da Mario, il 44 enne tetraplegico marchigiano che ha ingaggiato una battaglia legale con l’Azienda sanitaria unica regionale (Asur) per l’applicazione della sentenza della Consulta Cappato-Dj Fabo. Ma mentre l’associazione Luca Coscioni, che assiste legalmente Mario, assicura che è questione di tempo, «dipende solo dalla sua decisione», l’Asur, che ha espresso parere favorevole al Tiopentone, non ha certezze su quello che accadrà e quando.
C’è tuttavia un importante esponente dell’Associazione Coscioni convinto che oramai ci siamo. Si tratta di Mario Riccio, il medico che, un unicum per l’Italia, aiutò Piergiorgio Welby a morire e per questo fu processato e prosciolto. È responsabile del reparto Anestesia e Rianimazione dell’ospedale di Casalmaggiore, in provincia di Cremona.
Dottore, lei ha seguito la vicenda di Mario sin dall’inizio, che cosa accadrà ora?
«Per adesso Mario non vuole parlare, siamo alla vigilia di una settimana importante perché la Corte Costituzionale si dovrà esprimere in merito al quesito del referendum sull’eutanasia. Dopo penso che Mario prenderà una decisione su quando morire. E se lo vorrà io sarò al suo fianco».
Nel senso che lo aiuterà nel cosiddetto sudicio assistito?
«Sì, se lui sceglierà me come medico di fiducia io sono disponile. Finora, mi sono occupato direttamente del caso perché sono stato nominato dai legale dell’associazione Coscioni per verificare le quattro condizioni per ottenere il suicido assistito, ovvero la presenza di un malattia irreversibile, sofferenza fisica o psicologica intollerabile, trattamento di sostegno vitale e consenso consapevole e lucido. Mario, uomo di straordinaria ricchezza interiore e ironia, si trova in questo stato e quindi ha diritto di voler morire».
In assenza di una legge, questo diritto è sancito dalla sentenza 242 del 2019 della Corte Costituzionale. Perché lei, come medico, lo ritiene così indispensabile?
«Secondo la mia deontologia personale, che è diversa da quella generale, è un nuovo dovere morale portare alla morte un paziente che lo chiede perché le sue condizioni di malato di fatto sono state create dalla moderna medicina. Nel senso che con le cure attuali è possibile non solo curare di più ma anche tenere in vita più a lungo un malato, che però di fatto non guarirà e anzi soffrirà molto. Un tempo non esistevano cure e macchinari che potessero prolungare così a lungo la vita di un paziente. È quindi è un dovere morale della medicina porre termine alla sua vita se lui lo chiede con autonomia».
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