Perché i palazzi temono la democrazia diretta

Piergiorgio Odifreddi

La contrapposizione fra i promotori del referendum sul fine vita e la Corte Costituzionale deriva da visioni antitetiche della partecipazione dei cittadini alla politica, una formale e l’altra sostanziale. Dal punto di vista formale si scontrano, da un lato, l’idea democratica e popolare che a decidere delle regole del vivere comune, e soprattutto di quelle che ne costituiscono il fondamento e l’essenza, debbano essere i cittadini stessi, senza mediazioni di alcun tipo. E, dall’altro lato, l’idea paternalistica ed elitaria che a decidere debbano essere invece organismi e strutture via via più lontane dal sentire della gente comune, che vanno dal Parlamento al governo e agli organi di controllo. Nello specifico, la distanza che separa la Corte Costituzionale dal popolo è abissale: un terzo dei suoi giudici è eletto dagli eletti (i parlamentari), un terzo è eletto da un eletto dagli eletti (il presidente della Repubblica), un terzo è eletto da giudici che non sono eletti, e nessun giudice è eletto direttamente dai cittadini. Come se non bastasse, neppure la Costituzione che la Corte interpreta è stata a suo tempo approvata direttamente dai cittadini, ma soltanto indirettamente dall’Assemblea Costituente. E se anche lo fosse stata, oggi sarebbero morti tutti coloro che l’avessero votata: un’aperta violazione del cosiddetto principio di Jefferson, secondo il quale “la Terra è data in usufrutto ai viventi, e i morti non hanno poteri o diritti su di essi”.

Non stupisce dunque che il Parlamento, il governo e la Corte Costituzionale, che incarnano forme di democrazia via via più indirette e differite, guardino con crescente sospetto e fastidio ai referendum, che costituiscono invece una rivendicazione di democrazia diretta e immediata da parte dei cittadini. Stupisce invece, semmai, che lo stesso presidente Giuliano Amato abbia dichiarato qualche giorno fa, irritualmente ma benemeritamente: «Davanti ai quesiti referendari ci si può porre in due modi: o cercare qualunque pelo nell’uovo per buttarli nel cestino, oppure cercare di vedere se ci sono ragionevoli argomenti per dichiarare ammissibili referendum che pure hanno qualche difetto. Noi dobbiamo lavorare al massimo in questa seconda direzione». Naturalmente il neopresidente della Consulta parlava con cognizione di causa, ben sapendo che i suoi colleghi la pensavano esattamente al contrario di lui. E infatti, nei confronti del referendum sul fine vita hanno appunto trovato il “pelo nell’uovo per buttarlo nel cestino” paventato da Amato. Il quale, appartenendo a una tradizione storica di laicismo che è da sempre minoritaria nel Parlamento e nella politica della Repubblica italiana, sapeva bene che, oltre alle questioni formali, avrebbero pesato al riguardo anche argomentazioni sostanziali, legate alla concezione clericale della vita. Questa concezione è stata pubblicamente ribadita dal Papa il 9 febbraio scorso, a pochi giorni dalla delibera della Corte, in una delle esternazioni-ingerenze ai quali i suoi predecessori ci avevano abituati, e che gli ingenui pensavano fossero diventate obsolete nel suo sedicente “nuovo corso”. Riecheggiando le parole dei suoi predecessori Pio XII, Paolo VI, Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, Francesco ha affermato: «La vita è un diritto, non la morte, la quale va accolta, non somministrata». E ha aggiunto, affinché chi aveva orecchie da intendere intendesse: «Questo principio etico riguarda tutti, non solo i cristiani o i credenti».

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