Draghi, l’incontro con Mattarella e poi l’aut aut ai partiti: dentro o fuori, dovete garantire i voti
di Monica Guerzoni
La linea dura di Draghi con i partiti è stata concoradta con il Quirinale: è andato da Mattarella per preannunciare la strigliata ai partiti e l’aut aut senza precedenti. Ai ministri che si giustificano dice: siamo qui per essere idealisti, non realisti
Con un aut aut che non ha precedenti, Mario Draghi ha posto ai partiti della sua maggioranza una questione di fiducia sul governo: o dentro o fuori. Perché a forza di strappi si rischia di precipitare al voto, mandando in fumo i miliardi del Pnrr. È il passaggio più politico da quando l’avventura dell’unità nazionale ha avuto inizio. «Il presidente Mattarella ha voluto questo governo per fare le cose che servono all’Italia», ha sferzato il presidente del Consiglio affrontando i capi delegazione, quasi scioccati da tanta fermezza. E quando uno via l’altro i ministri hanno provato a giustificare i gruppi parlamentari, il premier ha reagito duro: «Non siamo qui per essere realisti, siamo qui per essere idealisti».
L’ultimatum nasce dalla notte di mercoledì a Montecitorio, quando il governo si è auto-affondato per quattro volte in Commissione. Il Pd e il M5S hanno strappato sull’Ilva, la Lega e Forza Italia hanno ritrovato l’asse con FdI sul tetto al contante. Ma non c’è solo il quadruplo incidente della Camera nell’ira di Draghi, c’è che provvedimenti cruciali come la concorrenza e la delega fiscale sono impantanati in Parlamento e il presidente si è stancato dell’ambiguità e dell’incoerenza dei partiti.
La linea dura è stata studiata a tavolino a Palazzo Chigi e concordata con il Quirinale . Draghi che «molla» il summit di Bruxelles, atterra a Fiumicino, sale al Colle per preannunciare a Mattarella la strigliata e riceve il pieno sostegno del capo dello Stato. Poi la lavata di capo. Al tavolo ci sono Giorgetti, Orlando, Gelmini, Speranza, Patuanelli, Bonetti. Il premier scandisce parole come pietre, che un ministro, colpito dal Draghi «furibondo», riassumerà così: «O siamo il governo del fare o è inutile star qui a scaldare la sedia. Con Mattarella non lo abbiamo costruito per tirare a campare. Quanto a me, posso sempre fare altro». Palazzo Chigi non conferma lo stile colorito, ma il senso è questo. Purché non si pensi che il presidente sia pronto all’addio. Gettare la spugna non è nelle sue corde, ha preso un impegno davanti agli italiani ed è determinato a portarlo in fondo. Alle sue condizioni. Come disse il giorno della fiducia al Senato, «il tempo del potere può essere sprecato nella sola preoccupazione di conservarlo». Lui non vuole sprecarlo, né consentire ai partiti di mandare al macero il lavoro di un anno di governo.
Possibile, chiede brusco ai capi delegazione, che la stessa maggioranza che in Cdm vota all’unanimità la riforma del Csm, un attimo dopo annunci di volerla cambiare in Parlamento? Lo stesso vale per il decreto spiagge. «Sono dinamiche ingiustificabili, con una crisi internazionale alle porte». E quando gli esponenti dei partiti provano a giustificarsi, Draghi inasprisce gli accenti, seccato dal tentativo di degradare una questione di merito politico a un tema di frustrazione dei gruppi parlamentari. Parla Patuanelli e spiega che, se da mesi chiede di poter avere in tempo le bozze dei provvedimenti, è per sondare l’umore di deputati e senatori del M5S. In diversi annuiscono, vista la difficoltà di controllare i gruppi. Gelmini ricorda che «siamo entrati in un anno elettorale». Draghi ascolta, prende i suoi appunti, quindi ribalta il tavolo. Smentisce la percezione che Palazzo Chigi non dialoghi con il Parlamento e cita a esempio il renziano Marattin che «tiene bloccata» la delega fiscale in commissione: «L’avete approvata in Cdm e ora volete togliere la riforma del catasto? Non può andare così. Voi mi fate l’analisi della situazione, io invece voglio che sia risolta. Fatemi sapere cosa intendete fare, perché se il governo non produce, non ha senso che vada avanti».
Pages: 1 2