Massimo Cacciari: “Questo sistema politico è morto, così i partiti non servono a niente”

ANDREA MALAGUTI

Questo sistema è morto». C’è qualcosa di irrevocabile nel modo in cui la voce del professor Massimo Cacciari sigilla le parole, sulla coda di 48 ore in cui i brandelli della credibilità politica sono sepolti prima dalla Corte Costituzionale guidata da Giuliano Amato e poi dal nervosismo insolitamente plateale di Mario Draghi.

Amato, nel corso di una sorprendente conferenza stampa, spiega promozione e bocciature dei referendum, appellandosi a un Parlamento sempre più inerme perché si sbrighi a legiferare. Draghi, il cui governo di sterminata e spappolata coalizione, va sotto quattro volte sul Milleproroghe, minaccia definitive ritorsioni nei confronti di partiti infantilmente riottosi. Tecnici che provano inutilmente a far correre i ronzini di Palazzo. “Intanto le diseguaglianze si moltiplicano e se non c’è una reazione immediata andiamo a sbattere”, dice Massimo Cacciari, che in questa intervista a La Stampa scatta l’ennesima impietosa fotografia del sempre più declinante ordine democratico liberale. Ma, soprattutto, italiano.

Professore, le decisioni della Corte Costituzionale sui referendum sono state tecniche o politiche?
«La Corte Costituzionale è un organo politico. In Italia non abbiamo poteri neutri. Parte dei membri della Consulta sono eletti dalla politica e così il Presidente della Repubblica. La nostra Costituzione non prevede poteri neutrali».

Non ha avuto l’impressione di rivivere il bis dell’elezione di Mattarella. Nei momenti decisivi la politica sparisce.
«È così. E sarebbe ora che la politica se ne accorgesse, perché questo è il tema dei temi. Ma è come se fossimo di fronte a dei malati che non si vogliono curare. Che non intendono discutere il loro male e, anzi, lo nascondono».

Morale?
«Serve un ripensamento completo dell’agire politico e un ripensamento delle istituzioni, che tenga conto della mutata situazione in cui viviamo da oltre 30 anni».

Più facile da dire che da fare. 
«Lo so, ma la questione si sta aggravando. Abbiamo una dimensione politica esclusivamente statalistica, quando il problema è quello dei grandi spazi, della contraddizione tra gli imperi, della globalizzazione tecnico-scientifica-finanziaria. È difficile ripensare una politica che rimane statale, ma se non lo facciamo in fretta della democrazia non ci resterà che un remoto ricordo».

È la fine della storia?
«No, ma il rischio è che se ne affermi un’altra in cui saremo governati da amministrazioni, non necessariamente totalitarie, centrate su competenze tecniche che si muovono in accordo con potenze economiche e finanziarie».

Sembra peggio della fine della storia. Sembra la fine tout court. 
«Questo sistema è morto. E l’allargamento della forbice tra ceto politico e opinione pubblica può essere foriero di qualsiasi avventura. Non penso a sconquassi novecenteschi, ma a pesanti crisi economiche e sociali sì. Bisogna rivedere in fretto il ruolo dei partiti e la funzione del Parlamento».

A proposito di ruoli. Giuliano Amato aveva detto che sui quesiti referendari la Corte non avrebbe cercato il pelo nell’uovo: è stato di parola?
«Aspettiamo le motivazioni per dare un giudizio. Dopo di che non capisco come si possa negare la validità dei due referendum che, per me, dal punto di vista etico erano i più significativi: fine vita e cannabis. Senza i quali, per altro, è del tutto evidente che nessuno dei quesiti rimasti raggiungerà il quorum».

Fa dietrologia anche lei? 
«No. Non so se la Corte abbia avuto questo retro-pensiero. Ma so che così il quorum non si raggiunge di certo».

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