La nuova fase “d.C.”: SuperMario sul filo
Mario Draghi ha deciso di cambiare passo. Segnando una decisa cesura tra la fase «a.C.» e quella «d.C.» (dove la locuzione sta, ovviamente, per «avanti Colle» e «dopo Colle»). Alla pazienza degli scorsi mesi – a volte ostentata, altre esasperata – l’ex Bce ha infatti lasciato spazio a una certa insofferenza verso quei partiti della maggioranza che continuano a giocare sul doppio binario, dando il via libera a provvedimenti specifici in Consiglio dei ministri per poi bersagliarli di emendamenti in Parlamento.
Nel merito il premier ha ragione da vendere. Come pure è logico che, venuto meno il sedativo dell’elezione del nuovo capo dello Stato, tensioni e incomprensioni si muovano ora senza alcuna sordina. Eppure, l’altolà che Draghi ha voluto lanciare giovedì è stato sì fragorso, ma anche piuttosto borderline rispetto al principio della separazione dei poteri, uno dei cardini di qualsiasi Stato di diritto. Che il premier lamenti una mancanza di coerenza da parte di partiti che prima (in sede di governo) approvano dei provvedimenti e poi (in sede legislativa) ci vogliono rimettere mano è sacrosanto. Come lo è, però, l’autonomia delle Camere nell’affrontare il processo di formazione delle leggi. Quell’indipendenza, peraltro, a cui ha fatto appello neanche un mese fa Sergio Mattarella durante il suo discorso d’insediamento davanti al Parlamento in seduta comune. Insomma, che nelle commissioni di Montecitorio e Palazzo Madama si incrocino i guantoni fino a notte a colpi di emendamenti fa parte delle regole del gioco democratico e non può certo essere oggetto di censura. Soprattutto se il premier decide di esprime le sue lamentele prima al capo dello Stato e poi ai capidelegazione che, come sa bene l’ex Bce, hanno in molti casi un’autonomia limitata rispetto alle leadership dei partiti. E che, restando fedeli alla forma, altro non sono che ministri, esponenti anche loro – dunque – del potere esecutivo.
Insomma, il format scelto da Draghi per veicolare la sua legittima irritazione lascia qualche perplessità. Perché il premier ha ragione di lamentare il doppio gioco di partiti che si muovono come fossero in campagna elettorale permanente. Ma dovrebbe farlo confrontandosi con quei leader con cui fatica – non poco e da sempre – a sedersi al tavolo e trovare un punto d’incontro.
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