Calenda vuole il campo tosto, non largo. E lancia un amo ai 5s normalizzati
di Roberto Scafuri
Allergico alla parola “centro”, pariolinamente assai poco trendy, anzi ormai del tutto fuori corso legale sul mercato della politica, Carlo Calenda mostra tanti difetti ma anche un paio di grandi qualità. Sa giocare d’anticipo, mostra coraggio come ormai pochi possono o sanno fare, parla il linguaggio chiaro della “sua” gente. Forse talvolta persino spiccio, urticante, grondante testosterone, come l’accusa garbatamente Emma Bonino dal palco del primo congresso di Azione che andrà di lì a poco a incoronarlo “segretario”. Un segretario che non vuole essere carismatico, gigioneggia lui dopo la proclamazione. Lui che vuole “gente che dica: ‘cacchio non sono d’accordo con Calenda’ e li incita pure a costruirsi delle correnti per rendere la sua leadership contendibile, meglio ancora se sarà una donna a fargli “un sedere così” e a prendersi il partito. Che tanto poi lui vuole portare al 20 per cento, come ha fatto alle Comunali romane, quando tutti gli davano del “pazzo”, e lasciarlo a chi verrà. E’ un fiume in piena al Palaeur, Calenda, e anche poco dopo, quando avrà a disposizione gli schermi di Lucia Annunziata a “Mezz’ora”, per rilanciare la sua sfida alle forze responsabili di questa maggioranza, in primis al Pd di Letta e ai tanti amici forzisti: “Non restate prigionieri di Grillo e Meloni, altrimenti imploderete e il Paese sarà ingovernabile”. Il suo sarà il terzo polo del riformismo e della cultura di governo, promette, alternativo al populismo e al sovranismo: ”Non siamo un partito centrista, ci chiamiamo Azione, siamo un partito liberal progressista, il grande centro non esiste, esiste un’area pragmatica che contiene le grandi famiglie politiche europee… Letta parla di campo largo, che va da Grillo-Raggi fino a noi. Io contropropongo a Letta il campo ‘tosto’, quello della cultura di governo”.
Ed è proprio sul nodo delle alleanze che il Calenda pragmatico e “azionista” fa intravvedere quale sarà lo snodo cruciale: il suo veto nei confronti di Conte e dei Cinquestelle viene declinato così come si conviene a un politico con le sue (grandi per non dire enormi) ambizioni. Del governo Conte non ho condiviso molte cose, premette Calenda, “ma il problema non è Conte. E’ che il M5S non c’è più, sono talmente divisi su tutto…”. I larghi gesti delle braccia e la mimica facciale rendono ancora meglio delle parole il giudizio sull’inconsistenza dell’attuale partito di maggioranza relativa, che va da Grillo e Raggi fino a Di Maio. Ma se Grillo “non è interlocutore, come si può avercelo come interlocutore di governo?”, per “quegli elettori legati essenzialmente alla figura di Conte” forse un futuro c’è: “se M5S diventa un’altra cosa, se incarna una figura che non sia quella del no a tutto, allora si può costruire qualcosa anche con loro”. Insomma, una “normalizzazione” completa che magari al momento suonerà irricevibile alle orecchie del mondo grillino, visto che si tira in ballo addirittura il Sacro nome del Guru fondatore. Ma che furbamente occhieggia invece già al possibile “recupero” di Conte, in una corrispondenza latente con la stessa operazione condotta – tra mille prudenze e distinguo – dall’(ex) avvocato del popolo che Grillo non voleva e pure aveva definito un “buono a nulla”.
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