La risposta unita dell’Occidente

Nathalie Tocci

La domanda non è più se ci sarà un’invasione russa dell’Ucraina, ma quando e dove si arresterà e quale sarà la risposta europea e transatlantica. Il presidente russo Vladimir Putin, accogliendo la richiesta della Duma, ha riconosciuto l’indipendenza delle province di Donetsk e Lugansk e ordinato alle sue truppe di invadere il Paese, occupando i territori separatisti. Il diritto internazionale è stato violato, la sovranità ucraina calpestata. L’invasione è già avvenuta.

Potrebbe finire così, per ora. La crisi ucraina del 2022 potrebbe echeggiare quella georgiana del 2008. Nel primo caso, Putin occupò e dichiarò l’indipendenza dell’Abkhazia e dell’Ossezia del Sud, senza spingersi verso la capitale georgiana Tbilisi: era l’8-8-2008. Nel secondo, il 22-2-2022, Putin potrebbe fermarsi alla linea di contatto, occupando solo la parte del Donbass fuori dal controllo del governo di Kiev dal 2014, evitando quindi uno scontro massiccio con le forze ucraine. I segnali sono contrastanti, ma il riconoscimento russo – e quindi l’invasione militare – potrebbe limitarsi a questi territori, senza spingersi nel resto del Donbass, né tantomeno del Paese, a partire dalla capitale Kiev. Putin in Ucraina guadagnerebbe relativamente poco nel breve termine, se non una spina nel fianco di Kiev e l’aver reso gli accordi di Minsk carta straccia. Ma fuori dal radar mediatico ci sarebbe il vero premio: un’occupazione de facto della Bielorussia attraverso la presenza militare russa permanente nel Paese. Razionalmente il gioco varrebbe la candela.

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Ma, purtroppo, gli unici dati certi sono che delle dichiarazioni di Putin non ci si può fidare, e che il presidente russo, nonostante abbia mostrato ripetutamente la sua cinica razionalità in politica estera, dalla Siria al Caucaso, dal Kazakhstan alla Libia fino al Mali, sembra averla persa quando si tratta di Ucraina. Sono molti i segnali che puntano in tutt’altra direzione, in una direzione ben più folle e pericolosa. Alla luce della farneticante conferenza stampa in cui il presidente russo ha negato l’esistenza della nazione ucraina, e delle oltre 190 mila truppe stazionate ai confini del Paese, sarebbe ingenuo dare per scontato che tutto finirà così. È evidente che Putin non è interessato a Donetsk e Lugansk ma all’intera Ucraina. Un’invasione su larga scala è ancora possibile.

In parte le scelte di Putin verranno condizionate dalle risposte europee e transatlantiche. Per ora l’Occidente si è mostrato sorprendentemente unito. La parola chiave emersa durante la Conferenza di Monaco lo scorso fine settimana – la prima in cui i russi non erano presenti in sala, per loro scelta – è stata proprio questa: unità. Poteva sembrare poco più di una retorica auto-congratulatoria, ma le prime risposte sanzionatorie da Washington, Londra, Berlino e Parigi – dove ieri si è tenuto il Consiglio affari esteri dell’Unione europea – confermano nei fatti questa unità. Il presidente americano Biden ieri ha firmato un ordine esecutivo che impone sanzioni agli investimenti, al commercio e ai finanziamenti da e nelle province separatiste, a quattro banche russe, il rifinanziamento del debito pubblico e varie élite e le loro famiglie. Londra sanzionerà cinque banche e un numero di oligarchi russi con asset consistenti nel Regno Unito.

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Berlino tira fuori l’asso nella manica, congelando la certificazione del gasdotto Nordstream II, segnando il passo al resto dell’Ue. I 27 Stati membri si accordano all’unanimità su un primo pacchetto di sanzioni che colpirebbero individui ed entità coinvolti nella decisione illegale, tra cui 351 membri della Duma e 27 individui e entità. Le sanzioni europee colpiranno le banche russe che finanziano le forze armate e altre operazioni nei territori occupati, il commercio con Donetsk e Lugansk, la banca centrale russa e il rifinanziamento del debito del Paese, nonché limiteranno l’accesso di Mosca ai mercati finanziari europei. Le sanzioni annunciate ieri non sono quelle finanziarie, tecnologiche e energetiche discusse nelle settimane scorse, ossia il limite massimo a cui sono disposti ad arrivare Ue, Usa, Regno Unito, Canada e Giappone nell’ipotesi di un’invasione su larga scala. Ma sono un primo pacchetto molto più consistente di quanto molti immaginavano.

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