La nuova frontiera di Draghi (non tutte le bandierine dei partiti sono uguali)

di  Alessandro De Angelis

Troppo facile questa narrazione che c’è Draghi, che vuole fare le cose, e poi ci sono i partiti, ognuno con le sue bandierine – tutte uguali: rosse gialle e verdi – che lo impediscono. E bene una, due o tre, ma alla quarta, se la ricreazione non finisce, il professore se ne va sbattendo la porta. Narrazione, che va assai di moda, nell’Italia dell’antipolitica dal basso, ma anche dall’alto, dove certe élite tecnocratiche coltivano l’antico vizio di liquidare la politica, secondo il consueto adagio – ricordate il ’92 e come andò a finire, Monti e come andò a finire – di gettare assieme all’acqua sporca delle cattive abitudini dei partiti in crisi pure il bambino della politica, spalancando le porte a diversi populismi.

È evidente che Draghi non può andarsene né per ripicca da Quirinale, né per esaurimento di pazienza. Non sarebbe da Draghi, a meno di clamorose rotture politiche, lasciare l’Italia senza timone in gran tempesta, senza esporla al rischio di naufragio ed esporre se stesso all’accusa di tradimento della responsabilità assunta. E infatti la verità è che la realtà racconta ben altro. Ci sono quelli su cui il premier sa di poter contare, come il Pd di Enrico Letta, che non a caso, nell’elenco delle sue priorità, ha fissato quei tre punti – concorrenza, fisco e appalti – che sono proprio le priorità di palazzo Chigi. I due si sentono molto più spesso di quanto lascino trapelare tanto che, nell’ultimo colloquio, il premier ha chiesto anche di concordare una formulazione proprio del famoso emendamento sull’Ilva: né una ramanzina né un prendere o lasciare. È il destino del Pd, quello di essere l’architrave della stabilità, con tutti gli oneri e onori del caso. Così architrave da rinunciare anche un certo protagonismo mediatico, di questi tempi cosa rara, per cui la linea è che, per ottenere risultati, si deve evitare di farne delle bandiere di parte, un po’ come sul Quirinale.

E poi ci sono quelli di cui ci si può fidare di meno, come la Lega, dove si registra un cambio di fase mica male, dopo il periodo in cui le intemperanze vaccinali di Salvini erano mitigate dai governatori e da Giorgetti. Vuoi perché è il segretario che fa le liste e l’ansia da sopravvivenza diventa dominante e, con essa, un fisiologico riallineamento. Vuoi perché qualcuno, a questo punto ha in mente una manovra più subdola e raffinata e cioè, pur di sbarazzarsi di Salvini, accompagnarlo a sbattere contro le urne, alla prima occasione utile, sia come sia per tutta una serie di motivi da quelle parti l’aria è cambiata.

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