Sgomento, senso di impotenza La domanda: sapremo reagire?

Certo, nell’Ue c’è una potenza nucleare, la Francia. Macron ha sperato di poter fare la campagna elettorale fermando o almeno blandendo il nuovo zar. Nel frattempo, a 40 giorni dal voto per l’Eliseo, il presidente ha ritirato le truppe dal Mali, dove già sono schierati i mercenari russi. Ora, Macron è tutto tranne che uno sprovveduto. Evidentemente sa che lasciare la prima linea della guerra all’estremismo islamico, che ha insanguinato la Francia in questi anni ed è una causa non secondaria dell’ondata migratoria che investe l’Europa, non fa perdere consensi; ne fa guadagnare. È la Francia del giugno 1940; e all’orizzonte proprio non si vede un generale al tempo quasi sconosciuto, Charles de Gaulle, che dalla radio di Londra invita a non arrendersi, mai.

Certo, nell’Ue c’è una potenza economica e politica, la Germania; e in queste ore si misura l’assenza di una protagonista dalla statura di Angela Merkel. Ma sulla scena internazionale la Germania è ancora il Paese sconfitto in due guerre mondiali, senza armi atomiche, senza un seggio permanente nel Consiglio di Sicurezza dell’Onu, senza i mezzi e senza la mentalità per fare una guerra.

Quanto alle nostre forze armate, proprio non meritano facili ironie. Da decenni, dalla missione in Libano — Paese dove siamo ancora impegnati —, i soldati italiani hanno dimostrato di sapere mettersi in gioco e anche morire per difendere i valori e gli interessi della comunità nazionale. I nostri uomini, gli alpini, i carabinieri sono considerati i migliori del mondo nelle missioni di costruzione della pace: perché sono capaci di dialogo e di rispetto per gli altri popoli; perché sono portatori di quella cultura umanista e cristiana che è il principale motivo per cui possiamo sentirci orgogliosi di essere italiani. La stessa cultura che ha portato a scrivere nella Costituzione che l’Italia giustamente ripudia la guerra come strumento di risoluzione delle controversie internazionali. Ma se la guerra ce la fanno gli altri?

Riconosciamolo: lo sgomento di ieri nasce anche dal distacco con cui abbiamo seguito le vicende ucraine. La difficile sorte di un Paese cuscinetto tra Putin e l’Europa libera. L’avvelenamento di Viktor Yushchenko. La partita tra una democrazia europea per quanto debole — che elegge presidente un ex comico e sindaco di Kiev l’ex campione dei pesi massimi — e un’autocrazia fortissima di stampo asiatico.

Ora l’ultima cosa da fare è sguarnire la frontiera orientale dell’Unione europea. È perdere l’Est per una seconda volta, dopo le speranze aperte dalla caduta del Muro e dall’allargamento dell’Ue. La prima crisi da affrontare sarà quella dei profughi. Ma la vera questione sarà la tenuta democratica — già messa a dura prova dal vento sovranista — di Polonia, Ungheria, Slovacchia, Repubblica Ceca; senza poter contare (come notava su questo giornale Antonio Polito) sui Walesa, sui Nagy, sugli Havel. La frontiera della libertà andrà difesa a ogni costo. Anche perché stavolta sarà sfidata direttamente l’America.

Se la Cina non ha ancora attaccato Taiwan, è perché sa che l’America per Taiwan sarebbe disposta a combattere.

Se la Russia ieri ha attaccato l’Ucraina, è perché sa che per l’Ucraina non era disposto a combattere nessuno.

Se fossimo stati pronti a fare la guerra per l’Ucraina, la guerra non ci sarebbe.

Dirlo adesso è forse inutile. Ma è utilissimo, anzi indispensabile, tenerlo a mente per evitare la prossima guerra.

CORRIERE.IT

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