Guardi l’Ucraina e vedi la Cina

di  Mattia Feltri

Questa notte la Cina si è astenuta sul documento dell’Organizzazione della nazione unite che condanna – anzi deplora – l’intervento armato della Russia in Ucraina. Non sono sicuro sia una buona notizia. Dico deplora anziché condanna, infatti, perché la sostituzione di questo termine con quello è stata una delle limature al testo necessarie per scongiurare il voto negativo dei cinesi. L’equidistanza di Pechino non è tale: un’equidistanza fra aggressore e aggredito è già un riconoscimento delle ragioni dell’aggressore, ma sembra più il surplace del ciclista in attesa del momento giusto per sferrare l’attacco. Uno dei tanti errori che possiamo commettere in questo momento, è di guardare all’Ucraina e non vedere la Cina.

Proprio stamane Luca Diotallevi ha ricordato sul Messaggero il documento sottoscritto il 4 febbraio da Xi Jinping e Vladimir Putin in occasione dell’apertura delle Olimpiadi invernali. Due punti in particolare spiegano quale opinione di noi – delle nostre democrazie liberali occidentali – abbiano i due alleati. Primo, i diritti umani non sono quelli codificati in Occidente, prima nella Dichiarazione d’Indipendenza degli Stati Uniti, poi nella Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino con la Rivoluzione francese, infine con la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo dopo la Seconda guerra mondiale. Ecco, i diritti dell’uomo non sono affatto universali, hanno convenuto Xi e Putin: siccome esistono gli  Stati e gli Stati sono sovrani, ogni Stato decide quali sono i diritti di cui i cittadini possono godere. Né altri Stati hanno facoltà di insegnare al mondo quali siano i diritti, tantomeno di esercitare pressioni, e quindi Russia e Cina potranno continuare a far fuori gli oppositori (oltre a tutto il resto su gay, minoranze etniche, rappresentanza, giustizia) e nessuno deve sentirsi autorizzato ad alzare il ditino per insegnare il giusto e lo sbagliato.

Secondo punto: le democrazie continuino a fare le democrazie, se gli va, e del resto vediamo come sono ridotte, ma le democrazie occidentali non sono il compimento del bene; altri le interpretano in altro modo, e cioè nel caso di Putin una democratura in piedi da due decenni abbondanti e in quello di Xi uno Stato totalitario con un solo partito al potere dalla metà del secolo scorso. E infatti s’è vista la fine che ha fatto la democrazia rappresentativa di Hong Kong e quale rischi di fare la democrazia ucraina. Ecco, non serve essere raffinati analisti per temere che l’equidistanza furba di Pechino sia un riconoscimento dell’azione russa in attesa che diventi l’azione cinese su Taiwan, altro scandalo di democrazia rappresentativa, e per di più su un’isola che la Cina considera sua e da riprendersi appena è il caso.

L’enormità della partita è di un’evidenza spettacolare, ma di nuovo viene interpretata in Occidente con disarmante meschineria: ci si chiede se valga la pena morire per Kiev come si chiedeva nel 1939 se valesse la pena morire per Danzica, e si conta di sbattere Putin al muro con una serie molto discussa e piuttosto trattenuta di sanzioni economiche. Il risultato è straordinario: gli effetti delle sanzioni sono temute più dai sanzionatori che dal sanzionato. Se non fosse chiaro, traduco: Putin se ne sbatte ampiamente delle sanzioni, mentre noi siamo angosciati all’idea di trascorrere un inverno al freddo, e ci rinfacciamo le responsabilità dentro all’Unione europea in base all’andamento dei rispettivi conti di bilancio. Se Putin se ne sbatte è perché questa guerra non ha semplici presupposti economici né semplici ripercussioni economiche: è molto di più, è la spada che periodicamente viene puntata alla gola delle democrazie liberali per ridurle in ginocchio e ridisegnare gli equilibri del mondo. L’ultima volta è stata con la Seconda guerra mondiale (aperta, non dimentichiamolo mai, dal patto di spartizione della Polonia fra il nazismo tedesco e il comunismo russo), e ora siamo punto e a capo.

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