La Lega e gli altri, cosa resta del partito russo
di Stefano Folli
La tragedia ucraina cambia i termini della politica europea e italiana più in fretta di ogni previsione. Sulla nuova linea dell’Unione – che tuttavia ha preso tempo circa l’adesione di Kiev – sono esaurienti le corrispondenze pubblicate in queste pagine.
Per quanto riguarda l’Italia, il dato che colpisce è la nebbia in cui sembra diluirsi il “partito russo”, peraltro non scomparso. Di tale “partito” Salvini è stato fino a ieri il punto di riferimento, ma ora egli garantisce di appoggiare senza riserve Draghi e le sue misure di sostegno a Zelensky.
Ciò non elimina le ambiguità della sua posizione che cambia di ora in ora. Domenica 27 febbraio in televisione il capo leghista era tornato a opporsi alle sanzioni: “Non in mio nome” aveva detto riprendendo un celebre slogan del movimento pacifista internazionale. Con il dettaglio che di solito la frase serve a rifiutare ogni collaborazione con gli aggressori e non si applica all’aiuto fornito agli aggrediti. In ogni caso Salvini in serata aveva già corretto il senso delle sue parole per non entrare in urto con il governo di cui fa parte. Lunedì 28 febbraio, dopo aver approvato l’invio di armi e mezzi a Kiev, è tornato a esaltare un generico impegno di Putin (in una telefonata con Macron) a far cessare gli attacchi contro obiettivi civili. Salvini ne parla quasi come fosse la fine della guerra, sempre presentandosi come l’interprete laico di papa Francesco.
Nel concreto la Lega non può che appoggiare la linea Draghi: europea, anzi euro-americana. Ma è evidente lo sforzo: non esiste una politica estera coerente del Carroccio, mentre i legami con la Russia sono stati solidi. Ne deriva che la svolta imposta dalle circostanze è precaria e intrisa di tatticismo. È chiaro, d’altra parte, che un ritorno in campo del “partito russo” sarebbe incompatibile con l’unità nazionale, cioè lo spirito che ha reso più forte Draghi e che è destinato a non venir meno fin quando durerà il conflitto a Est.
Una frattura sull’Ucraina, tema cruciale per l’Occidente, obbligherebbe la Lega a uscire dal governo. E questo vale anche per quella parte dei Cinque Stelle, la corrente di Conte, che ha condiviso con Salvini la spinta “putiniana” e oggi è costretta a fare i conti con la realtà. Anche qui stessa prudenza tattica, qui e là contraddetta da voci isolate. Come il presidente della commissione Esteri del Senato, Petrocelli, che si è schierato contro le scelte del governo.
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