L’inaspettata resistenza di Zelensky mette a nudo le quinte colonne italiane dei russi
Magari è presto per parlare di un Afghanistan nel cuore dell’Europa, ma è chiaro che cosa è destinato a diventare elemento di pressione sull’Occidente: la marea umana dei profughi, la cui onda probabilmente è stata messa nel conto per fiaccare l’Europa in relazione alla sua capacità di “tenuta”, e la reazione alle sanzioni, soprattutto se Putin agirà sul fronte energetico, la vera minaccia più del nucleare classificabile alla voce “propaganda del terrore”. E già questa prima settimana rivela su quale elemento si fondava la scelta dell’azzardo, che non aveva messo nel conto la “resistenza” e l’allungamento dei tempi. E cioè la presenza in Europa di una “quinta colonna”, o se preferite di un “ventre molle”, o ancora di una “rete” pronta all’appeasement e alla gestione passiva dell’aggressione.
Nei primi anni Ottanta, ci furono le manifestazioni contro gli euromissili a Comiso, movimento in larga parte animato da nobili ragioni. Di quel movimento, il caso suscitò molto interesse nell’opinione pubblica, facevano parte alcuni generali Nato che si schierarono contro gli euromissili, come Nino Pasti, candidato come indipendente nelle liste del Pci e collaboratore dell’Unità, che si fece fotografare mentre faceva volare colombe dalla pace. Da una ricerca documentata negli archivi della Stasi, è emerso che si trattava di una manovra di disinformazione con la regia della Stasi e del Kbg, di cui Putin era allora uno dei giovani ufficiali di collegamento. E che, in verità, le foto con le colombe erano state scattate a Berlino Est. È pubblicato nel libro di Thomas Rid, Active measures, the secret history of disinformation and political warfare, pubblicato l’anno scorso.
Adesso il Kgb non c’è più ma ci sono i ventri molli politici. Quelli che, per salvaguardare i nostri livelli di vita, avrebbero teorizzato in caso di guerra lampo riuscita, anche con ragionamenti alati, la realpolitik filo russa, cioè il fare buon viso a cattivo gioco, insomma “ha vinto, dobbiamo fare i conti con lui”. C’è stata, e c’è, e ci sarà tutta una narrazione sulle colpe dell’Occidente di cui ha scritto criticamente Paolo Mieli sul Corriere qualche giorno fa: quelli che avrebbero hanno indotto l’Ucraina a varcare il Rubicone lanciando la sfida all’autocrate e che “torneranno a chiedersi se vale la pena fare sacrifici per l’Ucraina”, “che diranno che l’impatto è asimmetrico perché colpiscono l’Italia più di altri” e che “diranno che è arrivato il momento di ascoltare le ragioni dei russi”.
È la storia della timidezza iniziale sulle sanzioni, di certa retorica su “vanno bene purché non siano pagate dagli italiani”, le posizioni timide di chi, in modo inequivoco, ancora non condanna l’accaduto a destra, di chi ha sinistra antepone l’autocritica verso l’Occidente alla spiegazione che la difesa della libertà comporta punti di Pil, con l’adamantina eccezione di Enrico Letta o di chi faceva proporre l’uscita dalla Nato, ma adesso si gode i paesaggi a Marina di Bibbona. La lente, attraverso cui leggere anche la discussione pubblica italiana, è anche questa. E anche qui si registra uno spiazzamento dovuto alla tenuta di Zelensky, l’attore protagonista del film che nessuno si aspettava.
L’HUFFPOST
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