Il dissenso interno che pesa sul Cremlino
di Gianni Riotta
Le migliaia di russi che, sfidando arresti e sevizie, sfilano in queste ore in decine di città, da Mosca a San Pietroburgo, al grido di “No alla Guerra”, “Vergogna Putin”, destano ammirazione perché, come i combattenti ucraini in trincea, sfidano il totalitarismo e mostrano quanto nobile sia battersi per la democrazia, i diritti, la verità, invise a troppi occidentali. Sono gli eredi del dissidente sovietico Natan Sharansky, che dopo nove anni in carcere insegnava “in dittatura il coraggio serve per combattere il male, in democrazia per riconoscerlo” o del matematico ucraino Leonid Plyushch, torturato nell’Urss, che lamentava “è mancato il tribunale di Norimberga per le vittime del gulag”. Il loro esempio morale dovrebbe far riflettere chi, nei bistrot europei, discetta di guerra a Kiev, ma basterà a diventare movimento politico e pesare sulle scelte militari di Vladimir Vladimirovich Putin, magari rovesciandolo in futuro? Qui il realismo si impone sull’etica: secondo i sondaggi indipendenti del Centro Levada, il presidente russo gode del consenso della maggioranza dei connazionali e, sostiene una rilevazione del Council on Foreign Relations, da quando ha mosso guerra al presidente ucraino Volodymyr Zelensky,Putin risale nei favori popolari. Gli sono contro i giovani, i ceti medi colti delle città che popolano le celle della polizia a migliaia, censiti dagli attivisti di OVD-Info, lo applaudono anziani, pensionati, abitanti nelle zone rurali, che l’anemica economia russa, Pil pari a quello del Nord Italia, premia con pensioni e sussidi.
Nessuno in Russia si illude che Putin possa essere travolto da un moto
popolare spontaneo, o che i suoi terrorizzati gerarchi possano deporlo,
come Breznev, Shelepin e il capo delle spie Kgb Semichastny fecero con il leader Urss Nikita Kruscev
il 12 ottobre 1964, in un golpe incruento. La censura che il regime ha
imposto ai media internazionali, il blocco delle piattaforme social,
fanno sì che la disinformazione del Cremlino sia, per milioni di russi,
verità. Dice a Repubblica uno dei collaboratori del dissidente
Alexej Navalny, prima avvelenato ora detenuto: “Sulle proteste c’è
censura, tanti vorrebbero partecipare ma, ignari, restano a casa”.
Eppure, sostengono sulla rivista Foreign Affairs le studiose Andrea Kendall-Taylor e Erica Frantz,
il colosso Putin è insieme potente e fragile, il suo declino potrebbe
non essere lento ma schiantarsi, come capita ai despoti, in fragorosa
débâcle. Soprattutto se, come possibile, la Russia si vedesse ingaggiata
in una sanguinosa guerra di posizione o se l’occupazione dell’Ucraina
si prolungasse tra guerriglia e terrorismo, come l’Afghanistan del 1979
che precipitò la fine dell’Urss. Il Paese è sotto choc, nessuno si
aspettava l’invasione, se perfino l’alto ufficiale russo Igor Girkin,
veterano del Donbass 2014, alla vigilia dell’attacco si diceva certo
fosse solo manovra diversiva, “perché ora l’Ucraina è in grado di
difendersi”. “Se Putin cattura l’Ucraina, la perderà, l’ha già persa.
Intanto ha isolato se stesso e la Russia. Perderà poi anche la Russia o
solo il potere?”, si chiede Andrei Kolesnikov del Carnegie Endowment for Peace.
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